Quando la storica Anna Beer – nel suo bellissimo saggio Note dal silenzio, le grandi compositrici dimenticate della musica classica – iniziava a raccontare dell’esordio musicale di Francesca Caccini al tempo di Cosimo II (1609 – 1621), scriveva: «Francesca si era trovata nel posto giusto al momento giusto: una donna compositrice in quella che era ormai la corte di una donna». Il riferimento era a Cristina di Lorena, madre di Cosimo ma, di fatto, a capo dello Stato dei Medici a causa dei continui problemi di salute del figlio.
Fu lei a nominare Francesca Caccini musica di corte, a commissionare spettacoli ed opere in cui le figure femminili prendevano con la forza e rivendicavano il proprio potere: Cristina era una donna al comando che si circondava di altre donne per mostrare quanto valessero. È una vicenda che insegna quanta parte della Storia sia ancora in attesa di essere riscoperta: se non riscritta. È ciò che sta facendo la giovane pianista salentina Beatrice Rana – ormai talento internazionale – che, a conclusione del suo anno da artista residente all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, ha dedicato un concerto all’opera di Clara Schumann e uno a Fanny Hensel.
Troppo a lungo conosciute come le mogli di Robert Schumann e Felix Mendelssohn, le due pianiste erano in realtà compositrici di grande talento: purtroppo, la loro voce musicale poté crescere e formarsi solo nel carattere privato a cui era costretta la loro vita. Così Fanny Hensel poteva comporre come e con il fratello, ma la pubblicazione delle sue opere le fu preclusa – specialmente da Felix, per cui lei aveva un amore e rispetto incondizionato – per tutta la vita. Le rimase di comporre per le occasioni familiari, o per quelle domeniche musicali organizzate nel giardino della sua villa a Berlino: forse quello l’unico spazio in cui Fanny Hensel compositrice poteva realizzarsi, pur continuamente perseguitata dalla paura di non essere mai presa sul serio. «Una dilettante è già un essere che desta apprensione, una donna autrice lo è ancora di più: ma quando le due entità si combinano in una sola persona, ne viene fuori la creatura più spaventosa che si possa immaginare», avrebbe scritto – non troppo ironicamente – in uno dei suoi diari.
Un nuovo canone
Nel suo ultimo concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia – guarda caso, una matinée domenicale – Beatrice Rana si è fatta accompagnare dalla sorella, violoncellista, nella Fantasia in sol minore di Fanny Hensel. Qualche settimana prima aveva invece condiviso sul palco insieme all’orchestra dell’Accademia anche il Concerto per pianoforte op. 7 di Clara Schumann – recentemente inciso insieme al direttore canadese Yannick Nézet-Séguin insieme al più famoso Concerto in la minore op. 54 del marito Robert. Quello di Clara è un concerto estremamente virtuoso, pensato per mettere in mostra le sue abilità da pianista: Clara calcava il palcoscenico da quando aveva otto anni e scrisse il concerto all’età di tredici. In quanto esecutrice prodigio – cosa che continuò a fare in tutta Europa per tutta la vita – le era richiesto di essere compositrice prodigio, ma, una volta sposata, riuscì a dedicarsi con fatica alla composizione. D’altronde, tutto ciò che scriveva sarebbe stato comunque etichettato come un «lavoro da donna», come finì lei stessa per definire le sue opere.
Quel che è straordinario di queste compositrici è che, pur scoraggiate da chi avevano intorno, non hanno mai smesso di farlo. Beatrice Rana non è certo la prima a scoprire Clara Schumann o Fanny Hensel, ma in Italia quello delle compositrici è un repertorio ancora poco battuto, anche e soprattutto a livello delle maggiori istituzioni. In poche settimane – e forte del seguito che ha tra i giovani pianisti – Rana ha portato su uno dei palchi più prestigiosi d’Italia due nomi di donne finalmente sganciati dalla romantica aurea di muse ispiratrici che le perseguitava, e le ha rese protagoniste della loro opera.
È un’azione che lancia un messaggio potentissimo: con Clara Schumann e Fanny Hensel non solo si riscoprono le prime pianiste concertiste, ma si riscrive un canone d’ascolto. Nella speranza che, in futuro, nessuna nascente compositrice si convinca che l’arte musicale sia – perché lo è sempre stata – solamente cosa da uomini.
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