Spike Lee e Chris Rock o Jack Nicholson e Adam Levine? Quando ci si domanda chi abbia la platea più chic della NBA le scelte sembrano cadere sempre sui New York Knicks e sui Los Angeles Lakers. Lee, eclettico regista vincitore di un Oscar alla carriera nel 2016, è abbonato dal 1991: posti in prima fila sedili 14 e 15. A Los Angeles, invece, i posti accanto al tavolo dei commentatori sono riservati per l’attore di Shining anche quando non c’è.
Se da Los Angeles si percorre la Pacific Highway in direzione nord, dove le riserve naturali californiane confinano con le coste dell’oceano Pacifico, tra San Josè e San Francisco, la Silicon Valley si staglia con aura mistica su tutti gli Stati Uniti, illuminando il mondo con il proprio genio.
In quella parte di America esistono due culti pagani: i San Francisco 49ers della National Football League (NFL) e i Golden State Warriors della National Basketball Association (NBA). Dal 2010, quando gli Warriors sono stati acquistati dall’imprenditore Joe Lacob, la Oracle Arena prima e il Chase Center poi sono stati presi d’assalto dai CEO delle aziende che danno forma al futuro degli Stati Uniti, inaugurando un legame iniziato con dei tragici punti bassi e culminato con la costruzione di una delle squadre più forti mai viste su un campo da basket.
Joe Lacob aveva un sogno
Quando alla fine degli anni ’60 è costretto a lasciare New Bedford, nel Massachussets, per andare ad Anheim, in California, il giovane Joe Lacob non sa ancora che la scelta fatta dal padre sarà propizia per la sua vita professionale.
Nel 1978 arriva il primo diploma in scienze biologiche, poi un master alla University of California at Los Angeles (UCLA) in epidemiologia, prima di terminare gli studi con un’altra laurea in scienze mediche alla Stanford University. La carriera accademica di Lacob non sa su che terreni lo porterà, ma gli instilla una passione per la statistica con cui si diverte a monitorare i suoi sportivi di riferimento. Qualche anno dopo, nel 1987, diventa partner della società di investimento Kleiner Perkins, con sede a Menlo Park, con cui decide di puntare su progetti di ricerca nel campo della medicina, anche se l’operazione più proficua sarà con Autotrader.com, uno dei maggiori retailer di auto usate presenti negli USA.
La possibilità di entrare nel business sportivo ancora non lo sfiora: lo farà solo all’inizio dei primi anni Duemila. Un passaggio nella lega di basket femminile e nel 2010 la grande occasione. Il proprietario degli Warriors, Chris Cohan, decide di vendere la franchigia e Lacob, insieme al socio di sempre, Peter Gruber, la rilevaper 450 milioni di dollari.
Portare la Silicon Valley all’interno della franchigia, e con essa l’ambiente informale, creativo, che lascia spazio alle persone di farsi ispirare, è una questione culturale. Come cambiare le sorti di una squadra che prima del 2010 ha disputato i playoff una sola volta in quindici anni? Nessuno viene licenziato nei primi sei-otto mesi della nuova gestione, si crea una squadra dirigenziale all’altezza e si inizia ad investire nella tecnologia.
Far entrare la Valle del Silicio nel front office degli Warriors significa ridisegnare la mentalità esistita sulla riva della Baia di Oakland fino a quel momento. Come assistente general manager (GM) viene scelto Bob Myers, un procuratore di giocatori, scartato da diverse franchigie perchè considerato non in grado di comprendere le dinamiche di una società di pallacanestro. Lacob ha un approccio più laterale: Myers è giovane e ha vissuto le stesse situazioni di un GM ma dalla parte opposta della scrivania. Sarà lui a non scambiare Steph Curry quando le sue caviglie inizieranno a sembrare fragili, è lui che aiuta a scegliere Klay Thompson e Draymond Green. È sempre lui a portare ad Oakland Andre Iguodala prima e Kevin Durant qualche anno più tardi.
I Silicon Warriors
L’armonia tra la Valley e gli Warriors è un fatto culturale. LA ha gli attori, New York ha gli stockbroker, Golden State ha i CEO di Apple, Rakuten e Youtube. Il matrimonio tra tecnologia e parquet avviene in maniera istantanea. Seguendo le orme di squadre come gli Houston Rockets, i San Antonio Spurs e gli Oklahoma City Thunder, Lacob decide di far installare delle telecamere SportsVu di ultima generazione in cima al soffitto della Oracle Arena. Le attrezzature sono in grado di analizzare ogni singolo movimento compiuto da un giocatore: angolatura del braccio al momento del tir, parabola della traiettoria e via dicendo. Tutti dati da gettare in pasto al folto gruppo di data analyst che lavorano per gli Warriors.
Da quel momento la franchigia di Lacob non si è più guardata indietro. I problemi da poter risolvere con la tecnologia sono infiniti e non si limitano al parquet. Come è possibile rendere migliore l’esperienza di un tifoso che si presenta al palazzetto? Facile, le nuove camere ideate da Zoom che mostrano i replay in 4D. E sul parquet? Dopo le Finals del 2019, quando Golden State si ritrovò a dover fare a meno di Kevin Durant e Klay Thompson per infortunio, il dibattito si è incentrato su come i dati possano aiutare a prevenire e curare gli acciacchi. Una stregoneria? «Non riusciremo a prevenire tutti gli infortuni, ma possiamo iniziare a cercare di prevedere quando un giocatore è a rischio», disse Lacob con convinzione dopo la sconfitta contro Toronto.
Il rapporto con la Silicon Valley ha avuto un effetto balsamico anche sui giocatori, che hanno costantemente la possibilità di confrontarsi con le migliori menti del XXI secolo. Non è un caso che Steph Curry sia azionista della Palm Tech, o che Kevin Durant dopo aver conosciuto il CEO di Youtube abbia aperto una sua azienda d’informazione che produce il suo podcast, o che Andre Iguodala sia stato visto più volte a presenziare dei panel sulla tecnologia.
Contaminazione, radicamento sul territorio e apertura a tutte le novità che il mondo della tecnologia offre allo sport. Se i Lakers e i Knicks han sempre puntato sul glam, gli Warriors hanno scelto la strada dei nerd. E hanno avuto ragione.