Era il 1976 quando Taxi Driver, quinto film di Martin Scorsese vinceva la Palma d’oro a Cannes per poi perdere, pochi mesi dopo, l’Academy Award contro Rocky. La distanza concettuale e culturale tra i due film, entrambi statunitensi ma espressione di bisogni diversi, della marginalità dell’antieroe uno e della rivincita dell’underdog l’altro, per anni è servita anche a tracciare due estremi del cinema occidentale.
Nell’immaginario Cannes è il festival dei cinefili, degli addetti ai lavori, di chi cerca nel cinema un’esperienza sensoriale profonda e sconvolgente che non sempre incontra i gusti del mercato e del pubblico generalista. È vero che nel 1994 la Palma d’oro è andata al regista più pop e post-moderno della contemporaneità, Quentin Tarantino con Pulp Fiction, eppure i vincitori del Festival degli ultimi quarant’anni sono film in genere sconosciuti al grande pubblico. Persino lo scioccante e chiacchierato Titane (2021) di Julia Ducournau è stato evitato con cura da molti avventori delle sale cinematografiche.
Un primo cambiamento è avvenuto circa vent’anni fa, con la nomina di Thierry Frémaux a delegato generale del Festival. Cannes si è aperta al cinema statunitense delle grandi case di produzione, non solo quello indipendente, al cinema di genere (horror, fantascienza) e a quello di animazione. Ha iniziato a espandersi verso un’idea meno rigida di cinema. Da quando la Biennale di Venezia nel 2020 è riuscita a sostenere la Mostra al Lido in piena pandemia – assicurandosi anche titoli da Oscar come Nomadland di Chloe Zhao – mentre Cannes dovette saltare l’edizione, Frémaux sembra prendere parte a una sua personale sfida alla Mostra.
Nel 2023, affiancato per la prima volta dalla nuova presidente del Festival Iris Knobloch, Frémaux prova a rispecchiare la programmazione delle ultime tre Biennali, concentrando nella prima settimana di proiezioni tutti i grandi ospiti hollywoodiani, per attirare la massima attenzione della stampa.
Michael Douglas, Uma Thurman, Johnny Depp, Julianne Moore, Natalie Portman, Jennifer Lawrence, Cate Blachett, Harrison Ford, Martin Scorsese, Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, in poco più di quattro giorni si è perso il conto delle star pluri-premiate che hanno calcato la Montées des Marches.
Gli Stati Uniti, con dieci film in Selezione ufficiale, seguono soltanto la Francia ospitante, confermando la tendenza del Festival di quest’anno a creare un filo diretto con gli Oscar e il cinema di Hollywood.
In Concorso ha subito attirato reazioni positive May December, la dark comedy di Todd Haynes che contrappone Julianne Moore e Natalie Portman in una storia che incalza i limiti morali dei suoi personaggi e del suo pubblico, senza mai giudicare. In sala sono soprattutto gli americani a ridere di gusto di fronte all’umorismo grottesco e fuori misura messo in scena da Haynes, è un film che parla soprattutto a loro, criticando con un sorriso e con intelligenza il sistema di spettacolarizzazione del trauma e del dolore.
I due veri eventi del Festival, tuttavia, riguardano due splendidi ottantenni, Ford e Scorsese. Harrison Ford, premiato anche con una Palma d’oro d’onore a sorpresa che l’ha emozionato fino alle lacrime, ha presentato sulla Croisette il capitolo finale della saga di Indiana Jones, l’unico non diretto da Steven Spielberg ma degna conclusione di un racconto generazionale.
Martin Scorsese, atteso in sala soltanto il prossimo ottobre, è stato accolto come il più importante ospite del Festival e il suo Killers of the Flower Moon considerato subito il capolavoro di questo Cannes e dei suoi ultimi anni di carriera. Dopo una lunghissima lavorazione, iniziata ancora prima del precedente film The Irishman (2019), Scorsese è riuscito a portare sul grande schermo i suoi due attori-feticcio, De Niro e DiCaprio, dirigendoli in interpretazioni straordinarie, per DiCaprio forse la migliore in assoluto.
In questi anni la sceneggiatura è stata modificata e riscritta più volte, tanto da rendere misteriosa la trama del film fino all’ultimo. La versione finale si discosta molto dall’omonimo libro di David Grann. Non è più il racconto delle indagini dell’FBI sullo sterminio della Osage Nation ma diventa un racconto dall’interno, dalla parte della popolazione nativa americana che negli anni Venti fu uccisa per i diritti sul petrolio e degli uomini che ne perpetrarono i silenziosi omicidi. Il vecchio Scorsese emerge con lentezza man mano che la storia avanza, nel frattempo tuttavia ci si rende conto che Killers of the Flower Moon è il film che non ha mai fatto, quello che gli mancava e che, con ragionevolezza, dovrebbe portarlo a quel trionfo agli Oscar che ancora non ha mai avuto in carriera.
Se così sarà, Frémaux e Cannes avranno la conferma di aver visto molto più lontano di tutti, almeno quest’anno.
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