Esclusiva

Giugno 5 2023
«È mia figlia, non “una” bambina» Le famiglie all’ombra dello stato

I genitori omosessuali fanno rete per proteggere i propri bimbi dall’indifferenza istituzionale

Erano trecento i sindaci di tutta Italia riuniti al Teatro Carignano di Torino lo scorso 12 maggio su appello del sindaco del capoluogo piemontese Stefano Lo Russo. Trecento rappresentanti delle città che rifiutano la decisione del ministero dell’Interno – e quindi del governo – di interrompere la registrazione all’anagrafe dei figli di coppie omosessuali. Nelle stesse ore, a Roma, procedeva la seconda giornata degli Stati Generali della Natalità 2023, con il dialogo tra Papa Francesco e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Nessun accenno, da parte di Meloni in quindici minuti di discorso, di un’apertura dei diritti della famiglia alle coppie omosessuali, nessuno sbilanciamento. Ha parlato invece di: «una Nazione nella quale tutti, uomini e donne, riscoprano la bellezza di diventare genitori, di accogliere, custodire e nutrire un figlio. Una nazione nella quale fare un figlio è una cosa bellissima che non ti toglie niente, che non ti impedisce di fare niente e che ti dà tantissimo».

La bellezza di diventare genitori è ciò che chiedono anche migliaia di coppie che, anzi, genitori lo sono già e necessitano invece di un riconoscimento da parte dello Stato di una realtà di fatto. La decisione dei trecento sindaci di prendere una posizione in merito non è perciò una contestazione fine a se stessa. Il vero obiettivo è arrivare al più presto a redigere una proposta di legge e portare la discussione in Parlamento, anziché nelle arene televisive, dove l’attenzione si focalizza sugli aspetti più polarizzati, come la gestazione per altri, e non sulle urgenze immediate di migliaia di cittadini.

«La gestazione per altri (gpa) riguarda nella quasi totalità dei casi le coppie eterosessuali», aveva affermato Alessia Crocini, presidente dell’associazione Famiglie Arcobaleno, già a marzo durante una manifestazione a Roma. «È entrata in un dibattito pubblico così feroce solo nel 2016, quando si è iniziato a parlare di unioni civili e famiglie omogenitoriali» e oggi viene usata per distogliere l’attenzione da problemi e difficoltà quotidiane, come è stato ripetuto più volte in questi mesi di sensibilizzazione al tema.

È più concreto e più urgente che in una coppia di mamme o di papà il genitore “non biologico” non possa stare in ospedale con i propri figli, se malati, o che non possa richiedere congedi retribuiti per prendersi cura di loro. È questione di responsabilità genitoriale, come oggi si chiama la ex patria potestà, di doveri – prima ancora che di diritti – di cui i genitori omosessuali vengono privati.

Grazie a una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (38162/2022), l’unica soluzione possibile oggi per tutelare il diritto dei minori ad avere entrambi i genitori riconosciuti dallo Stato è l’adozione in casi particolari, ai sensi della legge 184/1983 (art.44, comma 1, lettera d).

«Quando siamo andate in udienza, la giudice è rimasta è rimasta sconvolta dal fatto che io stessi adottando mia figlia», afferma a Zeta Alessia, unita civilmente ad Alessandra e madre insieme a lei della piccola Matilde, sei anni. Seppur consentito dalla legge, non è stato semplice ottenere i documenti che sanciscono il riconoscimento della loro famiglia, a partire dall’opinione comune, da tutte le volte in cui Alessia si è sentita dire negli uffici pubblici: ma perché vuoi adottare la figlia di Alessandra? E a cui ogni volta ha dovuto rispondere che no, non stava adottando una bambina figlia di un’altra donna, ma stava adottando sua figlia, una bambina «voluta, pensata e desiderata» da entrambe anche se poi portata in grembo solo da una.

Hanno due memorie differenti, Alessia e Alessandra, dei mesi in cui sono state sottoposte a valutazioni psicologiche e sociali, prima dell’adozione. «Io l’ho vissuta con più tranquillità, con Alessia sembrava la Santa Inquisizione», così nei ricorsi di Alessandra quella è stata una brutta parentesi, ormai superata. Per Alessia il dispiacere è ancora vivido, dopo anni: «Non si sono mai rivolti a Matilde come mia figlia, ma solo la bambina, già a me questa cosa faceva male, non c’è delicatezza. Poi abbiamo dovuto fornire un’infinità di fotografie che provassero che io c’ero sempre stata. Fotografie nostre, private, di coppia e altre in situazioni di socialità. Ho persino dato quella in sala parto, quando tenevo in braccio Matilde ancora sporca di sangue».

Si definiscono però fortunate, Alessia e Alessandra, perché la loro richiesta si è conclusa in positivo dopo solo un anno. Sono stati però necessari colloqui con psicologi e assistenti sociali e sentenze del tribunale per sancire ciò che le due donne sapevano già da quando hanno iniziato il percorso di procreazione assistita in Spagna, ovvero che sono già una famiglia.

«Se fossimo stati un Alessio e una Alessandra sarebbe stato tutto diverso, a partire dalle spese economiche, perché tutti i farmaci necessari a portare avanti la gravidanza sarebbero stati prescritti e “passati dalla mutua”, come per le coppie etero», afferma Alessia. «Non siamo però un Alessio e una Alessandra e per molti questo si riduce al fatto che abbiamo comprato nostra figlia, purtroppo».

Solo un eventuale intervento dello Stato – e del Parlamento attraverso una legge – potrebbe a questo punto livellare la disparità di diritti che esiste fra cittadini dello stesso Paese sull’unica base del rispettivo orientamento sessuale.

La rete delle Famiglie Arcobaleno si sta già muovendo attraverso una resistenza civile attiva, che nel mese del Pride, giugno, si intensificherà ma ha già come obiettivo una proposta di legge popolare.

Il cambiamento, se arriverà, sarà dal basso.

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