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Esclusiva

Giugno 7 2023.
 
Ultimo aggiornamento: Giugno 9 2023
«La letteratura nasce quasi sempre da un dolore»

“Una minima infelicità” di Carmen Verde: un romanzo che, pagina dopo pagina, svela «quello che delle persone piccole non compare nel mondo reale»

È un racconto intimo e spiazzante “Una minima infelicità”, il romanzo d’esordio di Carmen Verde, edito da Neri Pozza e candidato al Premio Strega, tra i premi letterari italiani più importanti, un riconoscimento che, fin dalla sua prima edizione nel 1947, ha contribuito alla rinascita culturale del Paese. Un romanzo di memoria in grado di coinvolgere il lettore fin dalla prima riga. Una finestra con le tende accostate da cui sbirciare con discrezione la vita di Annetta e quella di sua madre Sofia Vivier, una figura delicata ma allo stesso tempo ingombrante, di cui la bambina prima e la donna adulta poi reclama affetto e vicinanza ottenendo solo distanza. «Mamma non mi guardava mai. Ma la sua indifferenza non faceva che accrescere il mio amore già smisurato. È più facile capire le ragioni dell’odio che quelle dell’amore. Sospetto che se mia madre fosse stata una madre migliore, se non mi avesse continuamente esclusa dal suo mondo, se insomma mi avesse amata di più, forse non le avrei voluto così bene. La mia fantasia di bambina la trasformava, giorno dopo giorno, in una dea».

Annetta è una bambina dal corpo minuto, non cresce. Anche da adulta rimarrà sempre un’eterna bambina, e questo è causa di vergogna per la madre, bella ed elegante ma con un senso di tristezza che la pervade e che è incapace di colmare. Una vergogna che incide su Annetta facendola sentire così tanto inadeguata da sviluppare una sorta di ossessione per la madre, nel tentativo estremo di assomigliarle e di ricevere da lei anche solo un abbraccio. «Imparai negli anni a stare come una cosa piccola e morta sotto gli occhi immobili di mia madre. La più piccola e morta di tutte le cose». Anche il mondo di Annetta è un universo in miniatura che ha come fulcro centrale la sua casa, il suo universo in cui rimbombano gli echi del passato. Un tempo trascorso e lontano in cui si ritrova immerso anche il lettore attraverso le fotografie che si rincorrono per tutta la narrazione. “Una minima infelicità” nasce proprio da un’immagine che la scrittrice aveva in mente, quella di una bambina piccola, piccolissima, che non cresce e che è destinata a rimanere piccola. Un’immagine che la scrittrice porta sempre con sé. «Mentre scrivevo i primi capitoli, ma non dall’inizio, ho scoperto da dove veniva quella fotografia: l’ho capito non in modo razionale ma come quando ci torna in mente un sogno. Dietro quella, e dietro le altre fotografie che dispongo nel romanzo, ci sono delle immagini che appartengono alla mia vita. Ho avuto la grandissima fortuna di avere due madri: una biologica e un’altra che, insieme a mia madre, si occupava di me. E questa seconda madre, era una persona piccola di statura. Ci sono delle fotografie, a cui rimandano quelle del romanzo, in cui io sto accanto a questa seconda mamma, una zia amatissima, e mentre le sto accanto la rimpicciolisco. Sono delle fotografie che mi hanno sempre fatto molto male: mi accorgevo che lì non compariva davvero tutto della persona che amavo tanto. Non sono riuscita a stare lontana da quelle fotografie che mi facevano comunque disperare: ero io stessa accanto a lei che la facevo rimpicciolire. Secondo me la letteratura nasce quasi sempre da un dolore: quindi, sono partita da questo mio dolore e ho provato a illuminare, con lo sguardo della letteratura, quello che di mia zia non compare nel mondo reale, quello che delle persone piccole non compare nel mondo reale» spiega Carmen Verde.

«La letteratura nasce quasi sempre da un dolore»

È una storia familiare intrisa di sofferenza, follia e infelicità quella di Annetta, uno stato d’animo quest’ultimo che avviluppa tutte le persone della sua vita come se si trattasse di un’eredità da cui non è possibile tracciare una distanza. E che sua madre Sofia ha ottenuto in dote dalla mamma Adelina Gentile, nonna di Annetta, la «vecchia pazza» come la definiva suo padre Antonio Baldini, noto commerciante di tessuti. «La follia di Adelina dominava la nostra famiglia. Era nelle infedeltà di mia madre, era nella cupezza di mio padre, era nel mio corpo minimo, contratto, che io stessa guardavo ormai con disgusto». Adelina a un certo punto della sua vita era stata ricoverata in un istituto psichiatrico. Una settimana dopo essere stata dimessa aveva deciso di porre fine alla sua esistenza con un gesto estremo.

Antiche memorie e foto sbiadite dal tempo scandiscono le dinamiche familiari: «Papà non compare mai nelle fotografie. Eppure c’è, sempre: dietro l’obiettivo, è lui a decidere quali dei nostri inutili istanti consegnare al futuro. In posa, io e Sofia Vivier ubbidiamo al suo occhio implacabile». Un percorso verso il declino che trova il suo apice nell’arrivo di «un’orribile tiranna»: Clara Bigi, una domestica feroce e spietata, assunta per occuparsi di Annetta e della casa dalle due del pomeriggio fino alle sette di sera. Una donna crudele che arriva ad approfittare della debolezza di Sofia e Annetta e dell’assenza di Antonio per incidere pesantemente sulla famiglia. «I piccoli furti ormai abituali, le camicie di seta rovinate nella stiratura, le continue prepotenze: niente bastava a persuadere mia madre della necessità di ribellarsi a Clara Bigi. Accettava tutto remissivamente, come qualcosa di inevitabile, e che nemmeno si può sperare che finisca».

La scrittura delicata di Carmen Verde, pagina dopo pagina, è in grado di trascinarci fin nelle stanze in cui si svolgono le vite dei protagonisti, facendoci percepire i loro sentimenti, le loro incertezze e le paure di una vita caratterizzata da mille tormenti. Da bambina non pensava che un giorno sarebbe diventata una scrittrice nonostante una grandissima passione per la lettura. «Sono cresciuta in un deposito di testi scolastici: i miei genitori avevano delle librerie di libri scolastici e anche un’edicola. Quindi per raccontare come sono diventata una scrittrice dovrei contare il numero delle pagine che ho letto lì dentro. C’erano questi scaffali di libri che arrivavano fino al soffitto e che io leggevo, all’inizio prendendo i volumi che arrivavano alla mia altezza. Poi, crescendo, ho cominciato a prendere la scala. Magari ho letto anche cose mediocri, però mi hanno educata alla libertà come lettrice. Ho imparato così ad affrontare i testi in modo personale, senza il filtro della critica».

La morte del padre porta Annetta a diventare di colpo adulta, pur rimanendo nel suo corpo minuto. Quell’uomo che aveva sempre considerato debole e pauroso, dopo la scomparsa diventa colui che invece aveva saputo sopportare ma anche perdonare e lasciare andare i tradimenti della moglie Sofia Vivier, la donna a cui Annetta ora sceglie di dedicare ogni sua attenzione fino all’ora in cui anche sua madre la lascerà per sempre segnando il suo avvio verso una rinuncia a sé stessa. Chiusa nella sua casa, deciderà di trascorrere la sua vita in un’unica stanza, scoprendo il «piacere del recedere», ripudiando ogni contatto con il mondo esterno e trascorrendo le sue giornate al buio e in silenzio. «Aspettavo che scendesse la sera senza accendere la luce: guardavo la mia ombra crescere sempre di più, fino a ricoprire la parete intera. In quel preciso momento della giornata, diventavo grande anch’io. Più grande di mio padre, più grande persino di mia madre». Un universo minimo, infelice perché «l’infelicità è un luogo, un luogo fisico, una stanza buia nella quale scegliamo di stare».