Le pinne argentate guizzano, destano le acque intorpidite, schiaffeggiano le correnti. Le truppe dei tonni, schierate nel sale, scivolano lungo trincee di sabbia, ignare dell’agguato delle reti. Il nemico, appostato sulla muciara, ha escogitato l’attacco. Il rais, il capo della tonnara, ha intuito le vie dei venti e il temperamento del mare e ora, sulla piccola imbarcazione, tende un’imboscata in equilibrio tra la vita e la morte. Basta un cenno e i tonnaroti a bordo degli scieri accerchiano le reclute disorientate, issano i lembi delle reti e capovolgono le maglie degli abissi e della superficie. Incitati dalle grida del rais, i pescatori galleggiano sulla camera della morte, il grembo dove ciascuno culla l’altro con la cialoma, l’incessante cantilena di buon auspicio. Gli arpioni rilucono tra le mani ruvide, gli schizzi di acqua e di sangue aggrediscono i volti spaccati dalla fatica, la schiuma fende le chiglie scomposte.
«La mattanza rappresentava il momento più cruento della pesca del tonno, ma costituiva una violenza esercitata dall’uomo nei confronti degli sfortunati animali soltanto allo scopo di garantire la sopravvivenza della comunità. I tonnaroti non si arricchivano mai, ma lavoravano unicamente per garantire un morso di pane in bocca in più alle loro famiglie. Non si trattava di un mero spettacolo o di un capriccio, come invece avviene per la corrida» spiega Fabio Morreale, Presidente dell’associazione naturalistica e culturale Natura Sicula. «L’operazione richiedeva un grande impegno fisico e intellettuale e non ammetteva errori, perché un colpo sbagliato avrebbe messo a repentaglio l’intera pesca». Lo stesso rais, che era «il regista, e non il produttore, della mattanza», impiegava grande concentrazione per evitare di cadere nelle acque agitate della camera della morte, «perché una tonnara senza rais si sarebbe dovuta leccare a lungo le ferite prima di riuscire a riorganizzarsi».
Sarebbe arduo districare la storia delle tonnare di Sicilia, suggerite nel primo millennio da voci arabe, dalle pulsazioni dei borghi marinari aggrappati alle coste. «I tonni, nuotatori solitari nelle correnti invernali dell’Oceano Atlantico, allo scoppiare della primavera assecondano gli impulsi riproduttivi e migrano in branchi verso l’incubatrice del Mar Mediterraneo che, grazie alle calde temperature delle acque, favorisce la schiusa delle uova» spiega Morreale.
Per secoli i tonnaroti hanno sbarrato dagli scogli la marcia dei pesci. Il sistema di pesca della tonnara fissa prevedeva l’immersione nei fondali di labirinti di reti che intrappolavano i tonni in tranelli di camere comunicanti. L’ultima, la camera della morte, adescava i pesci per la mattanza: la rete tesa sulle sabbie, issata dai lembi, costringeva i tonni ad abbandonare le profondità per cercare rifugio in superficie. Prima di cadere sotto i colpi violenti dei pescatori, gli animali dimenavano le code come Menadi in preda alla frenesia dionisiaca.
Gli stabilimenti che accoglievano le prede arrese alla brutale cattura brulicavano di ciurme dalle spalle larghe, che con ganci e corde legavano alle altissime travi dell’appiccatoio le code ormai immobili dei tonni. Dalle stanze superiori degli opifici i proprietari della tonnara, membri di famiglie benestanti, dominavano le operazioni di dissanguamento. Poi nella camparía, la rimessa che forgiava gli attrezzi della pesca, le donne pulivano e inscatolavano nelle latte i tranci bolliti.
Sono riti remoti perché oggi, con l’avvento delle tonnare volanti che intercettano i branchi al largo e che repentine ingabbiano i tonni nelle reti di circuizione, «le tonnare fisse non hanno più senso di esistere». Le coste, svuotate dai consueti visitatori, appassiscono di infertilità. La millenaria tecnica di pesca, «più sostenibile sotto il profilo ecologico perché selettiva, dal momento che non coinvolgeva nella cattura anche tutti gli altri pesci presenti nello stesso specchio d’acqua», ha ceduto al nuovo metodo «meno faticoso e più redditizio».
Secondo Morreale ormai le antiche tonnare, perno della tradizione siciliana, «sono destinate a diventare archeologia industriale». Basti pensare alla Tonnara di Santa Panagia, affacciata sulle sfumature azzurre del mare siracusano, che ha registrato un’ultima, scarna mattanza nel 1970. Due restauri conservativi, «destinati soltanto a non far crollare il poco rimasto», non hanno impedito l’inerme abbandono del bene agli sfregi dei vandali. «Il restauro del nulla» dove, un tempo, tutto esisteva.
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