In un periodo in cui la musica affronta grandi cambiamenti, c’è chi è sordo al futuro e chi invece riesce ad anticiparlo. Il caso di Piero Umiliani è davvero peculiare nella storia della musica italiana: jazzista di nascita, incredibile sperimentatore, autore di colonne sonore e pioniere dell’elettronica, a causa di una malattia fu costretto ad allontanarsi dalla musica quando avrebbe potuto dare ancora tanto. Nelle orecchie anche dei più aridi in ascolto musicale, però, risuona una tra le sue più famose trovate melodiche: Ma nah ma nah! Celebre motivetto che l’America rese internazionale facendone sigla di apertura del Muppets Show.
Il musicista dalle mille vite
Umiliani era, però, molto più di questo. Non a caso Massimo Martella, il regista del documentario Il tocco di Piero – in giro per le sale italiane proprio in questi giorni – ha scelto per il suo film il sottotitolo le mille vite di Piero Umiliani. Perché di Umiliani non ce n’è stato solo uno: nato come jazzista, Piero era una figura dalla creatività insaziabile. Alcuni dei suoi brani, come Floating o come Chanel – che finì nel repertorio di un mostro del jazz come Oscar Peterson – ebbero in America una diffusione incredibile. Il musicista collaborò con Chet Baker, lavorò su testi di Pier Paolo Pasolini, mentre al cinema fu consacrato con quella fulminante colonna sonora che scrisse per I soliti ignoti di Mario Monicelli nel 1957. «Quando si accorgeva che l’ispirazione gli mancava, andava a cercare idee nel quaderno dove si appuntava tutto ciò che si era segnato in altri momenti. Un giorno eravamo a prendere il sole, lui si è alzato di scatto e ha scritto, con tanto di pentagramma, una melodia su un sasso» racconta ad un certo punto della storia la figlia Elisabetta.
Mai contento di ciò che la musica era, lui andava continuamente oltre. Questo lo fece, in particolar modo, in due occasioni della sua carriera: quando inaugurò una prolifica serie – e si parla di centinaia – di composizioni per film di genere (avventura, western, erotici – il più noto probabilmente, La ragazza dalla pelle di luna) degli anni 70, e quando capì che il futuro della musica era nel nuovo sound dell’elettronica. Proprio a Roma, nel 1968, Umiliani aprì il Sound Work Shop, uno studio di registrazione in cui portò – direttamente dai suoi viaggi in America – i primi sintetizzatori (Moog, Mellotron e Synth). In quel luogo si chiudeva a passare le nottate, registrando tracce che confluirono in tutta una serie di album la cui musica venne poi etichettata come listening music e che spesso, proprio per la sua audacia, veniva rifiutata dai produttori del tempo.
Piero Umiliani, perché oggi
Ne Il tocco di Piero, a distanza di ventidue anni dalla sua morte, c’è tutta l’enfasi necessaria alla riscoperta di questa figura e della musica che ha composto. Ancor prima dei computer, Umiliani scoprì il potere del postmoderno, l’incrocio di acustico e sintetico, l’arrivo di una fase di una nuova fase della storia musicale e d’ascolto, che si regge sulla destrutturazione. L’Italia è un paese che dei suoi geni, specialmente in campo artistico, sembra avere memoria breve, e che spesso fatica a comprenderne l’importanza. Così, un poco tristemente, la memoria di un rivoluzionario come Umiliani – ben conosciuta, ad esempio, in America – nell’ambiente musicale italiano viene ancora troppo relegata al solo jazz o a una musica di secondo piano (quella del cinema).
Per fortuna, grazie alla famiglia e a chi lo ha conosciuto, le mille vite di Umiliani stanno tornando alla ribalta. Il Sound Work Shop ha ripreso la sua attività – e le figlie conservano lì dentro ancora la sua strumentazione originaria. Per quanto riguarda la sue composizioni, invece, la Four Flies Records – etichetta discografica che si occupa di riportare alla luce capolavori di musica da film dimenticati – ha rieditato e pubblicato diverse sue opere.
Piero Umiliani, con la sua creatività e sensibilità, ci ha insegnato che con la musica non bisogna mai accontentarsi di quello che si ha. E che bisogna guardare al futuro, più che al passato, e non smettere mai di sorprendersi. Perché, davanti a noi, c’è qualcosa che è sempre in attesa di essere scoperto.
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