Il sole è alto a Ostia in un caldo pomeriggio di giugno. Nessuna ombra intorno, in uno scenario da western sul Lungomare Toscanelli, mentre le spiagge si riempiono. All’entrata dello stabilimento Village, tuttavia, a colpire è innanzitutto il silenzio. Nessuno che accoglie i bagnanti e i visitatori all’ingresso, nessuno che si muove tra le cabine di legno e paglia.
Il lido, gestito per anni dal clan Fasciani – definito mafioso da una sentenza della Cassazione passata in giudicato (Cassazione Penale, Sez. II, n. 3046/2020) – oggi è demanio pubblico confiscato alla criminalità.
Dal 2013, anno in cui è stato sequestrato e tolto ai Fasciani, è diventato un simbolo della legalità. È per questo che siamo a Ostia, per raccontarne la storia. Per capire cosa è cambiato negli ultimi dieci anni.
L’arrivo al Village
L’appuntamento è con Giovanna Palermo Di Meo, commercialista, rappresentante legale della società Malibù e coadiutrice Anbsc (l’Agenzia nazionale dei beni confiscati).
Dopo l’iniziale quiete del Village, ad accoglierci è un improvviso nervosismo. Nonostante gli accordi presi in precedenza, la commercialista, fino a quel momento seduta al chiosco per un caffè insieme ad altri dipendenti, si alza in fretta e nega il suo tempo, affermando di dover terminare un carico di lavoro urgente, tra call e firme di nuovi contratti.
«Non potete restare qui, non abbiamo mai preso un appuntamento» a nulla serve insistere, nonostante l’appuntamento fosse confermato. Il Direttore dello stabilimento, che secondo un documento inviato alla Prefettura di Roma nelle scorse settimane risulta essere l’ex bagnino dello stabilimento durante la gestione Fasciani, rifiuta a sua volta di rilasciare dichiarazioni, giustificandosi con lo stesso motivo, il «troppo lavoro» in quel momento.
Il silenzio della spiaggia semivuota diventa eloquente.
In pochi minuti si è alzato un muro. Il Village e la sua gestione, elogiata come un modello esemplare, diventano impenetrabili e un colloquio il cui scopo era quello di capire come funziona un bene dello Stato sequestrato alla criminalità organizzata fa sorgere più di un dubbio.
Sarà per l’eccessiva inquietudine generata da una visita già programmata, o per la voce e le mani tremanti di Palermo Di Meo, o ancora per l’aperta ostilità del Direttore del Lido, ma più tempo passa all’interno del Village e più i toni si accendono. Diventa anche difficile incensare la trasparenza di questo emblema di legalità ritrovata, come lo definiva il quotidiano La Repubblica qualche anno fa.
La storia dello stabilimento
L’inchiesta Mafia Capitale nasce tra gli ombrelloni del Village di Ostia, ormai più di un decennio fa, quando la giornalista Federica Angeli si infiltra nello stabilimento per osservare da vicino la famiglia Fasciani, che ha in gestione l’attività sul Lungomare Toscanelli. In seguito alla pubblicazione dell’inchiesta su La Repubblica e all’arresto di alcuni membri della famiglia Fasciani, indicati nella sopracitata sentenza della Cassazione, il Lido viene sequestrato nel 2013 e confiscato, in seguito alla sentenza di condanna, nel 2018.
Nel 2019 gli amministratori giudiziari Francesca Sebastiani e Angelo Oliva, affidano per quattro anni tramite bando la gestione del Village a Roberto Messina, presidente nazionale della Fondazione Federanziani. Già allora, secondo le fonti di Repubblica, la gestione di Messina introduce alcuni dipendenti dal passato controverso, come Patrizio Gabriele e il fratello Valerio sposato con la figlia del boss Guarnera, il quale è legato alla criminalità organizzata della famiglia Iovine.
Scaduti i termini del bando, il Village pochi mesi fa viene riassegnato dall’Anbsc alla Dottoressa Palermo Di Meo, che come sottolinea più volte anche a Zeta nei momenti più accesi della discussione è «il coadiutore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati alla mafia, non solo il rappresentante legale della società Malibù».
Un rappresentante dello Stato che ha chiuso tutte le porte. Un’occasione sprecata per raccontare una bella storia, facendo sorgere, invece, più di un sospetto sul senso di allarme e i muri di diffidenza eretti dalla coadiutrice così in fretta.
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