Esclusiva

Dicembre 12 2023.
 
Ultimo aggiornamento: Dicembre 13 2023
Storie di ordinaria violenza

I femminicidi più famosi che hanno scosso l’Italia negli ultimi settant’anni: da Wilma Montesi a Giulia Tramontano. Storie di donne senza giustizia

Rossella, Marisa, Maria Rosa, Liliana, Anna Elisa, Klodiana, Concetta, Annalisa, Etleva, Michéle, Giulia, Meena e Vincenza. Sono i nomi delle vittime di femminicidio degli ultimi tre mesi. Da inizio anno il totale è 41. La prima è stata Giulia Donato, il 4 gennaio. Vite, luoghi e affetti diversi ma con un elemento che le accomuna per l’eternità: essere tutte parte di storie brutali.  

Vicende violente, a volte irrisolte che sono state in alcuni casi capaci scuotere l’opinione pubblica. Il caso di Giulia Cecchettin ha avuto una rilevanza particolare in grado di far scendere in piazza centinaia di migliaia di persone. Tutte unite per chiedere giustizia.  

Non sempre è stato così. Nella prima Italia repubblicana c’è una ragazza romana di 21 anni. Si chiama Wilma Montesi. È figlia di un falegname, è la più grande di tre fratelli ed è prossima al matrimonio. Esce dalla sua casa in via Tagliamento il 9 aprile 1953, è Giovedì Santo. Il pomeriggio di quel giorno Maria, la madre, e Wanda, la sorella, si recano al vicino cinema Astra per vedere Carrozza d’oro con Anna Magnani. Alla fine, opteranno per Il Sole splende alto di John Ford. Troppo forte il fascino di una produzione hollywoodiana. Wilma rifiuta il loro invito. Ha altri piani per il resto della giornata.  

Tra questi non c’è quello di non tornare più a casa. Il corpo di Wilma viene ritrovato la mattina dell’11 aprile sul bagnasciuga di Torvaianica, all’epoca semplice villaggio dei pescatori, da un operaio edile. Non ha la gonna, né le calze e il reggicalze. Appena visto il corpo in obitorio, notando dei segni innaturali sul corpo della donna, il fidanzato e poliziotto Angelo Giuliani urlerà: «Me l’hanno ammazzata!». In pochi giorni il questore di Roma, Saverio Polito, mediante una conferenza stampa archivia il caso. Wilma è morta perché risucchiata dal mare e affogata.  

Una teoria che rassicura la famiglia sull’onorabilità della figlia e che permette loro di realizzare un funerale religioso. La stampa è scettica. “La polizia ha scelto la versione della disgrazia. Molti punti oscuri”, scrive il Paese Sera. “Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi”, titola il quotidiano Roma. I primi a rendere pubblico che sta venendo nascosto qualcosa è il settimanale Il merlo giallo, sul quale i primi di maggio appare una vignetta con un piccione che tiene nel becco un reggicalze. Il riferimento è verso Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Attilio Piccioni, figura chiave del governo democristiano. Per mesi ci sarà silenzio finché un articolo, su Attualità, racconterà di “orge a base di stupefacenti”. Il caso divide profondamente l’opinione pubblica.  

La magistratura riapre il caso. Il figlio di Piccioni viene arrestato per omicidio colposo e il padre si dimette da ministro. La vicenda trova ampissimo spazio sulla stampa tra retroscena e presunte indiscrezioni fino al maggio del ’57 quando la corte d’assise di Venezia assolve Piccioni e altri presunti coinvolti. 

Il caso Montesi è il più discusso del dopoguerra. Si mescolano tra loro potere, popolo e stampa. Manca, però, la giustizia.  

Sempre sul litorale laziale, 22 anni dopo, un altro caso di cronaca nera passato alla storia come il Massacro del Circeo, sconvolge il Paese. Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, giovanissime ragazze di 19 e 17 anni provenienti dal quartiere popolare della Montagnola, conoscono al bar della torre Fungo, nel quartiere Eur, due ragazzi: Angelo Izzo e Giovanni Guido. Le loro facce pulite, l’essere parte di famiglie benestanti e lo studiare medicina e architettura nascondono un passato pesante. Entrambi hanno precedenti penali per rapina a mano armata. Inoltre, l’anno precedente Izzo aveva violentato altre due ragazze.  

Questo Rosaria e Donatella non lo sanno. Tanto che, alla proposta dei due di andare con loro a una festa a Lavinio, accettano. È il 29 settembre ma la storia musicata da Battisti e Mogol non c’entra nulla con quanto accaduto alle due donne. I quattro arrivano in zona Punta Rossa nella località del Circeo. Precisamente a Villa Moresca, residenza estiva della famiglia di Andrea Ghira, quinto protagonista della tragedia passata alla storia come il Massacro del Circeo. Rapite, drogate, seviziate e torturate per un giorno e mezzo. Lopez muore annegata nella vasca da bagno. Colasanti si finge morta dopo essere stata colpita con una spranga sulla testa. È proprio questo che riesce a salvarla.  

I tre carnefici le chiudono nel portabagagli di una bianca Fiat 127. Verranno ritrovate in Viale Pola, nel quartiere Trieste, quando un metronotte sente rumori insoliti provenire dall’automobile. È Colasanti che cerca di salvarsi. Ci riuscirà. Se da un lato, anche grazie all’attivismo del suo avvocato difensore Tina Lagostena Bassi per la difesa dei diritti delle donne, la vicenda segnerà uno spartiacque nelle coscienze degli italiani, saranno centinaia le femministe che sosterranno Colasanti, dall’altro la giustizia si dimostrerà per l’ennesima volta insufficiente.  

Andrea Ghira non verrà mai arrestato. Izzo e Guido saranno condannati all’ergastolo. Il secondo, però, nel 1980 riceverà uno sconto di pena. Nel 1981 evaderà e scapperà in Sud America. Tornerà nelle carceri italiane nel 1994. Dal 2009 è un uomo libero. Izzo, invece, sarà protagonista di altri due femminicidi: Carmela Linciano e Valentina Maiorano, rispettivamente di 49 e 14 anni. Realizza i due omicidi in regime di semilibertà. 

Per decenni le storie di queste donne sono state raccontate in modo superficiale e sessista. Spesso gli aggressori sono stati descritti come uomini in preda a raptus di follia omicida e le aggredite come corresponsabili delle violenze subite. I tempi non erano ancora maturi perché si riconoscesse la cultura patriarcale come una delle cause di questi assassinii. 

Un importante cambiamento si verifica agli inizi del XXI secolo, quando sui giornali italiani ricompare il termine femminicidio inteso come violenza di matrice patriarcale. Da quel momento in poi, l’utilizzo sempre più frequente di questo sostantivo da parte dei media contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema e a rovesciare il suo punto di vista su vittime e carnefici.  

Come accade nel caso della quarantaquattrenne Roberta Ragusa, scomparsa da Gello, frazione di San Giuliano Terme in provincia di Pisa, nella notte fra il 13 e il 14 gennaio 2012. Quella sera la donna è nervosa e preoccupata perché il suo matrimonio sta naufragando e lei non può fare più nulla per salvarlo. La sua rabbia però esplode quando, ascoltando il marito Antonio Logli parlare al telefono, capisce che la persona con cui l’ha tradita è Sara, la ragazza che fa da babysitter ai suoi figli e che lei aveva sempre trattato come una sorella. I due discutono fino a quando Roberta esce in strada e si inoltra nei campi, diretta probabilmente verso la casa dell’amante di lui. Logli la raggiunge e la costringe a salire in auto. Da quel momento in poi Roberta Ragusa sparisce nel nulla. 

Nel 2019 i giudici di Cassazione lo condannano in via definitiva a 20 anni di reclusione per l’omicidio della moglie e l’occultamento del suo cadavere. Nelle carte processuali lo descrivono come un uomo manipolatore, egoista, bugiardo e incapace di instaurare un rapporto equilibrato con l’altro sesso. Antonio Logli, infatti, ha sempre scelto donne deboli ed insicure, che pendessero dalle sue labbra e si lasciassero guidare docilmente. Come la Roberta adolescente che aveva perso entrambi i genitori prematuramente, o come Sara Calzolaio, venti anni più giovane di lui, orfana di padre e cresciuta in una comunità di Testimoni di Geova dove c’era sempre qualcuno che le diceva cosa fare. Dopo la nascita dei suoi due figli, però, Roberta era diventata una donna emancipata e sicura di sé. Ed è per questo motivo, oltre che per ragioni economiche legate alla gestione dell’autoscuola, che Logli l’ha tradita e poi uccisa.

Un altro caso di femminicidio che ha come protagonista una figura maschile manipolatrice è quello di Giulia Tramontano, uccisa insieme al bambino che portava in grembo il 27 maggio 2023 a Senago, nel milanese, dal compagno Alessandro Impagnatiello. L’uomo, un trentenne che lavora come barman in un famoso locale di Milano, si presenta come un single brillante e alla moda ma in realtà conduce delle vite parallele. Ha già un figlio di otto anni di cui spesso nega l’esistenza, una relazione con Giulia Tramontano da cui aspetta un bambino, e una relazione con una seconda ragazza che, pure lei incinta, ha deciso di interrompere la gravidanza. Il concepimento di Thiago, però, mette a rischio il castello di bugie che Impagnatiello ha costruito per nutrire il suo narcisismo. Inizia così ad avvelenare Giulia, somministrandole dosi sempre più grandi di un potente topicida, forse con l’intento di farla abortire. La situazione precipita quando la ragazza e l’amante di lui scoprono l’esistenza l’una dell’altra. Impagnatiello si sente con le spalle al muro e non riuscendo più a gestire la situazione uccide Giulia con 37 coltellate. Poi prova a bruciare il suo corpo per ben due volte prima di abbandonarlo in un’intercapedine dietro ai box di una palazzina di via Monte Rosa. 

Questa vicenda scuote profondamente l’opinione pubblica sia per la determinazione con cui l’uomo ha perseguito l’obiettivo di uccidere la sua compagna e il figlio non ancora nato, sia per i futili motivi che lo hanno portato a questa terribile decisione. Il dibattito che si scatena nel Paese esprime sconcerto e indignazione ma produce anche una serie di importanti riflessioni sulla fragilità delle relazioni, sull’inadeguatezza dei genitori a svolgere il proprio ruolo educativo, sui valori che informano la società contemporanea.Wilma, Rosaria, Donatella, Roberta e Giulia. Pur essendosi verificate in luoghi e momenti diversi, le loro storie raccontano tutte di speranze tradite, di amori possessivi, di una violenza barbara ma allo stesso tempo razionale. Storie orribili che accomunano migliaia di donne di ogni età e ceto sociale e che purtroppo continuano a ripetersi.