Sono 120 le donne uccise nel 2023 per mano di un uomo, e 51713 le chiamate fatte al numero antiviolenza. Il 59% in più rispetto all’anno precedente. Numeri allarmanti, che evidenziano come il femminicidio sia ancora una piaga sociale, difficile da guarire. Eppure nella capitale esiste un centro con sedici posti letto, una sartoria, uno sportello psicologico che combatte la violenza di genere: la Casa delle donne Lucha y Siesta. Un luogo di riferimento nel panorama femminista romano, che dal 2008 cerca di preservare quello che c’è di più caro: il diritto ad esistere.
Lucha y Siesta è un ambiente dinamico, che permette di “combattere ma anche di riposare” come spiega il nome stesso. Simona, attivista da tanti anni lo descrive bene: «Questo non è solo un centro antiviolenza o un polo culturale, ma è una realtà più ampia ed articolata. Fatta di cineforum all’aperto, eventi, mostre ed una biblioteca femminista»
Un luogo così significativo come quello della Casa delle Donne in via Lucio Sestio, rappresenta un punto di appartenenza per la comunità e per chi ci lavora. Simona racconta come ha preso forma Lucha: «L’otto marzo del 2008 l’edificio venne occupato da tante donne, provenienti da movimenti femministi, no global e per il diritto all’abitare. Questo è un ambiente nato in un momento molto particolare della storia Italiana e di Roma: dopo il brutale femminicidio di Giovanna Reggiani nel 2007».
Una situazione che le istituzioni non capirono come gestire: «Ci fu solo un decreto sicurezza con sgomberi di campi rom e caccia all’uomo straniero. In piazza però quell’anno scesero a manifestare più di 100.000 mila donne, comprendendo che il problema era più profondo. Per me fu un’epifania. Ed è proprio in quel momento che la Casa prese vita».
Negli anni Lucha y Siesta ha sostenuto duemila donne ad uscire dalla violenza, ospitando duecento di queste e un centinaio di bambini e bambine. Un luogo che oggi è diventato un’istituzione. Nato tutto da un gesto di rottura: l’occupazione. Questo ne ha segnato la sua storia. «Il governo non ha mai riconosciuto il valore sociale e politico della struttura – dice Simona – ma la comunità territoriale sì, è sempre stata presente. Dal 2018 siamo state al centro di una grossa battaglia col Comune di Roma».
L’immobile era di proprietà dell’ATAC, l’azienda dei trasporti comunale, ma a causa dei moltissimi debiti nel 2019 l’edificio venne messo all’asta per circa 2 milioni di euro. Da quel momento si è parlato più volte di sgomberare gli spazi occupati dal centro, e l’ATAC si era costituita come parte civile nel processo sull’occupazione, chiedendo un risarcimento da 1,3 milioni di euro. Poi lo scorso 24 novembre 2023 ha deciso di rinunciare.
Simona chiarisce: «L’altro giorno, lunedì 22 gennaio, c’è stata l’udienza finale di un processo a nostro carico perché tre anni fa, nel 2021, l’Atac, che allora era ancora la proprietaria dell’immobile, fece partire una nuova denuncia per occupazione. Ci sono stati due processi. Il primo fu quando le forze dell’ordine entrarono in casa alle 7:00 del mattino e denunciarono le donne e i bambini ospiti nella casa rifugio. Le nostre avvocate si sono battute insieme a noi affinché le denunce fossero stralciate. E il secondo, lunedì, quando il procedimento penale è finito con un’assoluzione piena nostra e dell’associazione. Se oggi la Regione Lazio decide di mandarci via, si deve prendere la responsabilità politica e pubblica di farlo per un pregiudizio nei nostri confronti».
Negli ultimi mesi, le attiviste di Lucha hanno chiesto alle istituzioni di riconoscere in via ufficiale le attività, senza successo. I sedici posti letto non rientrano nella rete ufficiale delle case rifugio gestite dal comune di Roma: «La comunità da quindici anni porta avanti la struttura, facendo manutenzione. Il comune, le amministrazioni, la regione Lazio non hanno mai versato un euro – risponde molto amareggiata Simona – abbiamo fatto dei calcoli qualche anno fa in riferimento ai bandi comunali, e ci siamo rese conto che ce lo saremmo potuto comprare quattro-cinque volte questo posto. Speriamo di rimanere qui, perché questa è la nostra casa, e perché le persone hanno bisogno di noi».
Tra i tanti servizi, ce n’è uno in particolare a cui le attiviste di Lucha sono affezionate: Byblis, la biblioteca di narrativa femminista e transfemminista. Margherita, Dottoressa in Studi di Genere e collaboratrice spiega: «È un’alternativa agli spazi istituzionali. All’interno ci sono 4000 volumi disponibili al prestito e alla consultazione. I libri sono stati donati da tre fondi di tre grandi attiviste italiane: Elettra Deiana, Paola Masi e Alessandra Capone».
Il lavoro che si sta cercando di fare è diverso da quello di una classica biblioteca, racconta Margherita: «Con un gruppo di persone ci stiamo occupando della catalogazione, un lavoro a cui teniamo molto, perché ha un processo che vuole uscire dalle solite schematizzazione, dando centralità al libro».
La collaboratrice chiarisce che ogni ambiente della Casa non è neutrale: «C’è un posizionamento politico, ed è importante che ci sia. Lucha non è soltanto un posto in cui si contrasta la violenza di genere in modo reattivo ma è uno spazio generativo, di creazione. È bello sapere che esiste una rete di persone, una sorellanza».
Ancora di più aiuta sapere che non si è sole: «Nell’ultimo anno abbiamo visto la marea che si è alzata dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. C’è stata una presa di coscienza collettiva – conclude Margherita – esserci come Lucha è importante. Questi sono i luoghi da dove si dovrebbe partire per rispondere alla marea. Ma sono anche quelli a cui non si vuole dare voce, che vogliono essere chiusi perché divergono dalle narrazioni dominanti. Sono quelli che fanno paura».
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