Esclusiva

Febbraio 15 2024
Gli Arrusi, l’amore ai tempi del ventennio fascista

Durante il ventennio fascista molti uomini furono esiliati sull’isola di San Domino a causa del loro amore considerato illegale. Oggi Luana Rigolli li racconta con i suoi lavori fotografici per le strade di Roma

Nella prima metà del Novecento, Alfio descrive su un foglio di carta la semplicità della sua vita tra il fango in cui era costretto: «Catania, 24-5-1939. On. Commissione d’Appello per l’assegnazione al confine di Polizia, sono B. Alfio qui detenuto dal 10-2-1939. Nessuna causa grave su di me che fino ad oggi ho vissuto come tutti gli altri uomini. […] Il mio mestiere è il panettiere». 

Sono le prime frasi di una delle lettere inviate tra il 1939 e il 1940 da alcuni uomini confinati sulle isole Tremiti dal regime fascista per le accuse di “pederastia passiva”. Molti degli ostracizzati erano siciliani, tra i diciotto e i quarantacinque anni, tutti reclusi nella colonia istituita sull’isola di San Domino, a quasi ottocento chilometri da casa. Non furono gli unici, a causa del loro orientamento sessuale nei cameroni dell’isola venivano spediti uomini e donne da tutte le regioni d’Italia. Tra gli anni venti e gli anni quaranta del Novecento, le isole Tremiti sono state un luogo di relegazione per coloro che l’ideologia fascista non considerava parte sana di un’ideale società razzista e omofoba. 

Emulando le pene a cui erano condannati tutti gli omosessuali rinchiusi nei campi di concentramento nazisti con un triangolo rosa cucito sulla stoffa dei loro vestiti, in Italia gli arrusi, come venivano definiti in dialetto siculo, vennero reclusi lì, lontano dalla comunità a nascondere l’abominio del loro amore.

A distanza di ottantacinque anni, Roma li ricorda tutti celebrando nel giorno degli innamorati il loro affetto mancato. Grazie alle installazioni della fotografa Luana Rigolli il ponte del Pigneto si riempie delle foto ritratto degli arrusi. L’evento fa parte dell’iniziativa Pigneto in Love e le immagini derivano da un progetto dell’artista inaugurato nella sala Manica Lunga di Palazzo D’Accursio a Bologna. 

I suoi studi sono nati per caso e hanno portato alla luce un racconto prezioso: «Quasi tutte le mie ricerche fotografiche riguardano o la Storia, o le isole. Sono le mie due grandi passioni. A febbraio 2019 sono entrata in una libreria e come sempre sono andata nel reparto Storia. Ho trovato un libricino intitolato “La città e l’isola”, e l’ho subito preso in mano. Parlava della storia degli omosessuali di Catania confinati durante il fascismo. In quel preciso momento ho capito che volevo raccontare questa storia con la fotografia». 

Attraverso la lettura Rigolli ha scoperto le abitudini di tutte quelle persone e ha dato inizio a un viaggio attraverso le loro vite. La fotografa racconta l’evoluzione del suo lavoro tra i centri di ritrovo degli omosessuali in quegli anni e la visita delle Tremiti, dove ha potuto vivere i luoghi del dolore degli esuli. Le violenze, i controlli medici invasivi a cui furono sottoposti tutti gli uomini presenti nei suoi ritratti l’hanno portata ad andare sempre più a fondo nel tentativo di ridare loro voce. 

Nel 2022, dalle sue fotografie è nato il libro “L’isola degli Arrusi”. Subito dopo la pubblicazione, lo scarso interesse della stampa italiana per il suo racconto fotografico l’ha spinta ancor di più a cercare di diffondere il racconto finché la sua proposta non è stata accolta all’estero, prima in Germania e poi da National Geographic in Olanda: «Temo che in Italia le questioni LGBTQI+ siano ancora messe troppo in secondo piano, al grande pubblico interessano poco. Siamo un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato, in particolare con il ventennio fascista. Quando espongo questo lavoro la prima reazione delle persone è lo stupore, tutti mi dicono che non conoscevano la storia e mi ringraziano. E io ne sono felice, nel mio piccolo cerco di fare in modo che più persone ne vengano a conoscenza per avere una maggiore consapevolezza di quello che è stato, per evitare che ricapiti in futuro».  

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