Esclusiva

Febbraio 15 2024
Rafah è sempre più affollata, ma non è un luogo sicuro

Dal 7 ottobre sono arrivati nel sud della Striscia circa un milione di profughi. Ora Netanyahu promette una potente operazione a Rafah

A sud della Striscia di Gaza, una linea disegnata dagli inglesi nel millenovocentosei segna il confine tra l’Egitto e la Palestina. Nella città di Rafah, che si estende a ridosso della frontiera, sorge l’unico valico che consente ai palestinesi di entrare in uno stato che non sia Israele. È lì che dal sette ottobre decine di migliaia di profughi scappano dall’incubo dei bombardamenti.

Attraversare il passaggio non è facile, nemmeno in tempo di pace: i palestinesi devono mandare con largo anticipo, due o quattro settimane, una richiesta che può essere respinta sia da Hamas sia dalle autorità egiziane. Il presidente Al Sisi non vuole che l’escalation si concluda con lo sfollamento dei palestinesi in Egitto e ha militarizzato il confine e lanciato minacce a Tel Aviv.

Già prima del sette ottobre la città era una delle aree più affollate della Striscia, la situazione di adesso non ha precedenti: è passata da duecento ottanta mila abitanti a un milione e mezzo. Rafah è oggi tra i luoghi più densamente popolati del mondo. La densità è passata da quattromila a ventiduemila persone per kilometro quadrato. Per capire l’entità del dato basti pensare che Napoli, la città più affollata d’Italia, ha un rapporto di ottomila e cinquecentosessantasei abitanti per kilometro quadrato.

Dopo aver chiesto per mesi ai palestinesi di rifugiarsi a Sud della striscia, definendola una zona sicura, venerdì Netanyahu ha annunciato un nuovo piano speciale per abbattere gli ultimi covi di Hamas, situati, secondo il premier israeliano, a Rafah.  

L’annuncio dell’attacco ha segnato un cambio di umore tra i paesi alleati. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha chiesto di non attaccare se non in possesso di un piano di evacuazione per i civili. «La recente escalation è pericolosa e deve essere fermata» ha affermato il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres dicendosi preoccupato per una possibile catastrofe umanitaria a Rafah. Sentimento condiviso anche dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione Europea, Josep Borrell, che non risparmia critiche all’Occidente: «Netanyahu non ascolta nessuno. Dove evacueranno queste persone? Sulla luna? Se la comunità internazionale crede che ci siano troppi morti, deve pensare a smettere di fornire armi».

Giovedì quindici gennaio Canada, Australia e Nuova Zelanda hanno rilasciato una dichiarazione mettendo Israele in guardia da una «catastrofe senza precedenti». Un messaggio è arrivato anche dal Vaticano, il segretario di Stato Pietro Parolin ha condannato l’operazione militare avviata da Netanyahu definendola “sproporzionata”.

Nel frattempo Rafah aspetta i bombardamenti israeliani: «Le persone stanno iniziando a muoversi per cercare un posto più sicuro, non sanno cosa fare né dove andare, sono terrorizzate. È triste vedere il vuoto nei loro occhi» dice la coordinatrice del progetto di Medici senza Frontiere (MSF) a Rafah Lisa Macheiner. La situazione è fuori controllo, l’area è talmente affollata che non c’è spazio per muoversi in macchina e spesso nemmeno a piedi. «Manca l’accesso al cibo, all’acqua, ai servizi igienici e alle cure. C’è un enorme bisogno di cure primarie, di follow-up per i pazienti operati, persone con ferite infette» spiega il coordinatore delle attività di promozione alla salute di MFS Mohammad Abu Zayed.

«Tutto questo è avvenuto sotto gli occhi dei leader mondiali. I bisogni sono enormi e la situazione richiede una risposta umanitaria sicura e su scala molto più ampia» conclude Meinie Nicolai, direttrice generale di MSF.

Le immagini satellitari mostrano schiere di tende e rifugi temporanei che occupano quasi tutta la superficie della città. Rafah si è trasformata ormai in un enorme campo profughi abitato da gente in fuga dalle città più a nord, dalle bombe e da altri campi profughi. Appena arrivati, nuovi bombardamenti potrebbero costringerli a ripartire ancora, ma luoghi sicuri, a Gaza, non ce ne sono più.

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