Esclusiva

Marzo 4 2024
Trovarsi tornando alle radici: Tangerinn di Emanuela Anechoum

Mina ha trent’anni e vive a Londra, da dieci non torna in Calabria, dove è cresciuta. La morte del padre la riporta a casa sua dove si tratterrà a lungo

«Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai riposo né contentezza; e mentre sono là, vorrebbero trovarsi qua, e appena sono tornati qua, subito hanno voglia di andarsene via». Sono le parole di Elsa Morante nell’Isola di Arturo che Emanuela Anechoum ha deciso di apporre come esergo nel suo romanzo d’esordio Tangerinn: “Mina – la protagonista – sceglie di andare via dal paese sul mare della Calabria in cui è cresciuta perché non si trova. Pensa che la vita di provincia non le somigli e che una metropoli come Londra le potrebbe permettere di realizzarsi e trovare i suoi simili.

Emanuela e Mina condividono le origini italomarocchine e un soggiorno londinese, quanto basta per suscitare l’attenzione di lettori sempre più ossessionati dalla presenza del vero nella finzione: «Da un po’ di tempo – forse Carrére ed Ernaux sono gli artefici di ciò – si è sviluppata un’attenzione morbosa per la non fiction, non si chiede più agli scrittori di immaginare ma di descrivere. Io ho scelto, attraverso Mina, di calarmi nella finzione, di pensare a come sarebbe stata la mia vita se non fossi nata in una famiglia borghese. Cosa sarebbe successo se i miei genitori non mi avessero pagato gli studi a Milano, se non mi avessero mantenuta durante il mio stage a Londra?», racconta Anechoum.

L’idea del libro c’era da tempo, ma è servito qualche bicchiere di vino per convincere Emanuela a far leggere ai suoi colleghi (l’autrice lavora da E/O) il manoscritto: «Volevo raccontare le storie di mio padre, erano troppo belle per rimanere inascoltate». Si è posto poi il problema del punto di vista. Se Salgari ed Hemingway non si facevano scrupoli quando scrivevano di un’Asia o un’Africa che mai avevano visitato, il panorama letterario diversificato di oggi e l’emersione di nuove sensibilità porta gli autori stessi a riflettere sulla loro credibilità: «All’inizio stavo scrivendo un romanzo di formazione in prima persona dal punto di vista del padre, Omar. L’ho terminato e mi sono accorta che non suonava, così ho aggiunto Mina. Il punto di vista è il suo, è lei che riporta i racconti di Omar. Quando il racconto si sposta in Marocco cambia anche la persona, si passa da una prima singolare a una seconda, come se Mina per la prima volta avesse la possibilità di porre al padre, che non c’è più, le domande che non gli ha mai fatto, le curiosità mai soddisfatte.

Nonostante le sue origini marocchine Anechoum sentiva troppo radicato in sé lo sguardo eurocentrico: «Mi impediva di entrare in alcuni discorsi, soprattutto quelli sulla fede. Io sono atea e avevo troppa paura di stare facendo un’appropriazione culturale. Io non ho idea di cosa significhi crescere da ragazzino musulmano negli anni Sessanta in un quartiere malfamato di Casablanca. La prima persona richiede un grado di identificazione che io non sono riuscita a sopportare».

Il passaggio dal romanzo di formazione alla storia narrata da Mina ha permesso a Emanuela di affrontare più argomenti, dedicando un approfondimento a ciascun personaggio. Con Aisha, la sorella di Mina, viene indagata la fede e la condizione delle donne musulmane in Italia, con la madre Berta la diversità il conflitto tra madri e figlie, il padre è l’oscuro che attrae, una persona affascinante proprio perché misteriosa.

Anechoum tessendo la trama di un romanzo che si snoda tra Casablanca, Londra e la costa calabrese riflette sul concetto di casa e di radici giungendo alla conclusione che non è mai il luogo a definire la propria identità, ma la comunità. Restare non significa abbandonarsi all’indolenza, a volte andarsene è la cosa più facile e a rimanere sono i coraggiosi.

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