Dopo il tramonto, a Gaza, non c’è più il tradizionale banchetto che segna l’inizio del Ramadan: tavolate ricche di datteri e shorba, tipiche zuppe di lenticchie della cucina araba, sono state sostituite dai tendoni. Lì sotto le organizzazioni umanitarie distribuiscono, nelle pentole, le poche razioni di cibo disponibili. «Per loro non è la tradizionale astinenza religiosa: muoiono di fame», la dottoressa Nada Zewaila ha avuto modo di conoscere alcuni palestinesi. Assiste come volontaria i degenti che la raggiungono al Cairo, in Egitto, o li va a trovare all’interno della Striscia. Quello che in Occidente viene visto da tanti come un periodo di sofferenza, è in realtà il mese sacro dei musulmani, che lo vivono come una festa. All’astensione dal cibo durante le ore diurne deve seguire il sostanzioso pasto dell’ifṭār. «Il problema per chi vive in guerra non è il digiuno in sé, è come romperlo: senza viveri, soffriranno. È molto pericoloso».
Durante queste quattro settimane sante, iniziate il 10 marzo in alcuni Paesi del Medio Oriente, i fedeli islamici sono soliti donare cibo ai più poveri. In quei 360 chilometri quadrati a Gaza, però, tutti i civili versano nelle stesse condizioni di miseria. A 100 km da lì, nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme, la festa di apertura ha lasciato il posto alla marcia di rivolta dei palestinesi, che attendevano un cessate il fuoco dopo i tentativi di mediazione di Stati Uniti, Egitto e Qatar. Poche ore prima, il premier israeliano Benjamin Nethanyahu vanificava le loro speranze in un’intervista a Politico: «Senza la liberazione di qualcuno, non ci sarà nessuna pausa nei combattimenti». Uno dei leader di Hamas, Ismail Haniyeh, li ha quindi chiamati a protestare sul Monte del Tempio, luogo conteso dalle tre religioni (islamica, ebraica e cristiana). La piazza era spoglia delle consuete decorazioni del Ramadan, ma affollata da migliaia di poliziotti. Uno scontro già avvenuto l’anno scorso all’interno della Moschea di Al-Aqsa, che questa volta è stata invece bloccata dalle forze dell’ordine.
Anche a Gaza City la Grande Moschea Omari resta inaccessibile, ma per motivi diversi. Su quel minareto, da cui il muezzin è solito recitare il primo adhan (la chiamata alla preghiera), che all’alba di ogni giorno del Ramadan segna l’inizio dell’astensione, non può salire nessuno: è diventato polvere, così come gran parte dell’edificio. Fino al tramonto i civili palestinesi dovranno evitare anche bevande, fumo e atti sessuali. «Lì non interpreteranno queste settimane in maniera diversa», dice sicura la dottoressa Zewaila. «Seguiranno comunque la fede, ma la fisiologia dei loro corpi è in condizioni disastrose. A livello strutturale sono molto magri, soffrono di malnutrizione di base».
Quando rientra al Cairo, il medico egiziano Zewaila torna arricchito dalle testimonianze dei civili che segue da vicino. «Lavoro con diverse comunità di Gaza. In una di queste c’era quest’uomo, famoso anche in Egitto, che si è affermato come vocal coach ed è diventato benestante. Due settimane prima della guerra aveva speso tutti i soldi per comprare un pezzo di terra dove si era costruito la sua casa». Poi, il 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas a Israele, la situazione si è ribaltata. «Da lì è diventato un rifugio per la sua famiglia. Ha provato a tenere in quel luogo i figli, ma non ha potuto dare loro niente per colmarne la fame e la sete. Ho scoperto che si sono ridotti a bere l’acqua del mare, salata. Anche questo ne ha compromesso lo stato di salute».
Secondo il Global Nutrition Cluster, l’insieme di associazioni che si occupano di alimentazione, il 3% dei bambini palestinesi sotto i due anni sarebbe in pericolo di vita per malnutrizione. In questo scenario, una pausa dai combattimenti potrebbe consentire l’arrivo di nuove provviste. «Parlavo con Ahmed, un mio amico arrivato da Gaza», racconta la dottoressa. «Mi ripeteva quanto fosse importante per Hamas e Israele raggiungere un accordo questo mese». Il cessate il fuoco non servirebbe solo a consentire l’ingresso di aiuti umanitari: i rischi, durante il Ramadan, sono alti anche nei momenti di aggregazione. «Nella Striscia sono caratterizzati da uno spirito pluralistico. Mi raccontava come nel2014, durante un’altra guerra con Israele, c’erano attacchi aerei proprio durante la rottura del digiuno. Li lasciavano in pace tutto il giorno e di sera venivano bombardati. Mi ha detto che ora, in un periodo di riti collettivi, hanno paura di stare insieme».
«Di solito i palestinesi non sono drammatici, si mostrano forti. Qualche giorno fa, però, Ahmed era molto triste e gli ho chiesto il motivo». Un nodo alla gola stringe la voce di Nada Zewaila. «Guardava le decorazioni per le strade del Cairo, mi ha detto che una sorta di colpa di sopravvivenza lo stava assalendo». Si tratta della festa più importante dell’anno, ma questa volta per gli abitanti di Gaza è la tensione a dominare. «Diceva: “Io sono qui, vedo la gente prepararsi ed essere entusiasta, mentre la mia famiglia è nella Striscia e non sa nemmeno come farà a rompere il digiuno”. È stato un istante molto sincero. Chi vive lì non cerca di spiegare quanto sia difficile la loro vita. Ora, però, non possono godersi l’atmosfera di questo momento. Se riescono bevono l’acqua, ma abitano nelle tende sporche. Non è il mese benedetto che attendono con ansia». Un nuovo adhan segnerà l’inizio di un ulteriore giorno di Ramadan per Ahmed. E quando al tramonto romperà il digiuno mangiando datteri, qualcun altro a Gaza si metterà in fila con le pentole in mano.