Esclusiva

Marzo 20 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 21 2024
Il realismo magico di Antonio Donghi

Fino al 26 maggio nel Museo di Palazzo Merulana a Roma è possibile visitare la mostra “Antonio Donghi, la magia del silenzio”, curata dallo storico dell’arte Fabio Benzi

Quando si guarda un quadro di Antonio Donghi è difficile non farsi irretire da quell’atmosfera rarefatta e misteriosa che cristallizza tempo e spazio. Il mondo è immortalato tra un respiro e l’altro, come in un fotogramma. Le foglie degli alberi, dipinte una ad una, le figure umane, così algide nei loro vestiti satinati, le superfici levigate: tutto è rappresentato in uno stato di immobilità tale da suscitare nell’osservatore sensazioni che, trascendendo la vista, coinvolgono gli altri sensi. 

«Se qualcuno volesse dipingere il silenzio, non lo farebbe come Donghi?» si chiede Fabio Benzi, uno dei massimi esperti del pittore, nonché curatore della mostra a lui dedicata, allestita nel Museo di Palazzo Merulana a Roma. I trentaquattro capolavori che la compongono, in esposizione fino al prossimo 26 maggio, illustrano la genesi e lo sviluppo del suo percorso artistico, fatto di ritratti, nature morte e paesaggi campestri. Il catalogo che li correda, scritto sempre da Benzi, ne fornisce una nuova interpretazione critica, che permette di comprendere a pieno una figura enigmatica tanto quanto la sua arte. 

Nato nel 1897 a Roma, Antonio Donghi frequenta il Regio Istituto di Belle Arti per poi arruolarsi nell’esercito. Sopravvissuto agli orrori della Prima Guerra mondiale, torna a dipingere con uno stile post-impressionista tradizionale, quasi banale. Tra il 1922 e il 1923, però, l’artista è colpito da «un vero e proprio shock pittorico, una caduta sulla via di Damasco», che trasforma il suo modo di esprimersi. Uno scatto repentino compiuto senza sperimentazioni, di cui Le lavandaie è la prima originale espressione. 

Secondo Benzi le interpretazioni date finora per spiegare un tale mutamento non sono convincenti: «Alcuni critici hanno sostenuto che fosse avvenuto dopo una mostra di De Chirico esposta nel 1919. Ma questa teoria non può essere vera», afferma. «Se uno viene folgorato da De Chirico nel ‘19 non ci mette tre anni per cambiare il suo stile. Quindi, occorreva scavare con più attenzione nella vita di Donghi per capire cosa fosse accaduto».

I risultati delle sue ricerche lo hanno portato a tutt’altra conclusione: «Probabilmente la sua maturazione è avvenuta frequentando la galleria di Anton Giulio Bragaglia, un polo culturale di ispirazione internazionale dove si esponevano opere di espressionisti tedeschi, dadaisti, artisti del Bauhaus. Bragaglia, poi, era molto vicino ai Futuristi ed era anche un regista». In un ambiente tanto stimolante, in cui cinema, teatro e arti figurative si intrecciano, Donghi entra in contatto con Ubaldo Oppi che espone le sue opere nel maggio del ’22.  Ed è proprio questa mostra, secondo lo storico, ad essere stata una rivelazione per il pittore romano. 

Nelle opere di Oppi, infatti, sono presenti alcune caratteristiche formali che saranno riprese e reinterpretate da Donghi, come «i personaggi immobilizzati in un’atmosfera senz’aria, i paesaggi costruiti da edifici geometrici sovrapposti nella loro volumetria, come negli affreschi giotteschi, il disegno nitido e affilato, le espressioni interrogative e penetranti». Elementi che faranno diventare entrambi fra i massimi esponenti italiani del Realismo magico, una costola del movimento artistico del Ritorno all’ordine. «È una corrente complicata da un certo punto di vista» spiega Benzi, «perché ciò che viene rappresentato ha l’apparenza di realtà ma la sensazione che dà è quella di essere in un mondo astratto magico e forse anche un po’ inquietante».

Adottando questa visione fortemente intellettualizzata, che semplifica i dettagli per dare un’impressione platonica del mondo, Donghi ritrae con pennellate impalpabili una Roma popolata da donne e uomini borghesi, popolani, saltimbanchi e circensi. Osservando la composizione delle sue opere, la staticità e la postura delle figure, il monumentalismo, è facile individuare nella pittura dei grandi del passato e nel cinema espressionista tedesco alcune delle sue fonti di ispirazione. «È strano come questo non sia mai stato notato prima» commenta il curatore, «lui cita senza mai citare veramente. Quindi coglie molto intimamente i riferimenti che gli interessano ma li traduce in maniera così originale che nessuno mai si era reso conto di quanto ampia fosse la sua cultura». 

Nella mostra è esposto anche Ritratto equestre del duce, realizzato dall’artista nel 1937. «Non sappiamo molto del rapporto che Donghi aveva col Fascismo» spiega Benzi, «sappiamo però che Lauro De Bosis, da lui ritratto nel 1924, è diventato un famoso oppositore e che quando Roma fu liberata dagli americani, si tenne una festa proprio nel suo studio. Questo però non significa che sia stato sempre contro il regime». Un’ambiguità che accomuna molti degli artisti attivi nel Ventennio. Sulla genesi del quadro il curatore racconta le sue perplessità: «Non si può non notare una strana coincidenza. Nel 1936 lui aveva vinto un concorso per un posto da insegnante all’Accademia ma non aveva una cattedra. Quindi ha girato diverse sedi fuori Roma prima di stabilirsi nel ’39 all’Istituto centrale del restauro. Che lo abbia dipinto con convinzione o per proteggere il suo posto di lavoro, non lo possiamo sapere» conclude.

La mostra Antonio Donghi, la magia del silenzio è dunque un’occasione per il grande pubblico di scoprire un artista che, a quasi un secolo di distanza, riesce ancora ad ipnotizzare gli spettatori con le sue opere dal fascino discreto.

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