«All’Università di Trento era necessaria una revisione del regolamento generale per adattarlo al nuovo statuto. Abbiamo quindi proposto, per semplicità, un unico genere che però, invece del maschile fosse l’opposto. Da qui il “femminile sovraesteso”», è quanto spiega il rettore Flavio Deflorian. Una nuova normativa di ateneo con una importante novità: «I termini rettrice, direttrice, professoressa si riferiscono a tutte le persone, indipendentemente dal genere».
Lo hanno deciso all’unanimità Consulta di ateneo, Senato accademico e Consiglio di amministrazione. Non mancano, però polemiche e critiche che, secondo Deflorian, «hanno denotato scarsa conoscenza dei fatti». La deputata di Fratelli d’Italia Alessia Ambrosi ha definito su X «tragicomica» l’iniziativa. «Le critiche mi hanno sorpreso non tanto in sé, ma nei modi aggressivi e talvolta sopra le righe. È chiaro che un regolamento al femminile può apparire strano e all’inizio sembrare una provocazione, perché non ci siamo abituati, ma pur non condividendolo, le reazioni sono state spesso esagerate», commenta il rettore sottolineando come il suo intento fosse quello di promuovere «una cultura paritaria tra i generi» e che «nessun uomo sarà chiamato con termini femminili o il contrario. Il regolamento si riferisce a cariche o termini in astratto, quando il genere non è noto». Sostiene la scelta la senatrice Julia Unterberger: «Ha ragione il rettore nel rivendicare il valore simbolico di una proposta che ha ottenuto consenso unanime: un’inversione linguistica per far comprendere a tutti il senso di subalternità ed esclusione che la lingua può generare». Il ministro dell’Università Anna Maria Bernini rispetta la decisione, ribadendo che «è però importante che sul tema delle pari opportunità non ci si concentri solo sui fattori lessicali. Servono fatti concreti».
È intervenuta sul caso anche Vera Gheno. La sociolinguista si occupa di «linguaggio ampio, che non riguarda solo il genere, ma tutte quelle caratteristiche umane che possono dare adito a una discriminazione come etnia, religione, corpi non conformi, neuro atipicità, povertà».
Oggi la questione del linguaggio assume sempre più importanza ed è argomento sensibile: «C’è tanta paura di cambiare lo status quo linguistico, quando, invece, la realtà sta evolvendo, la struttura interna della società si sta modificando, quindi è naturale che sia così anche per la lingua». In un documento ufficiale il suo suggerimento è quello di utilizzare, dove possibile, «soluzioni semanticamente neutre». Secondo Vera, l’androcentrismo linguistico affonda le radici nelle antiche società greche e latine, all’interno delle quali l’uomo agiva nella quasi totalità degli affari: la polis, la democrazia non erano appannaggio delle donne, recluse nelle mura domestiche. Il ruolo centrale dell’individuo maschio, dunque, «ha influito sulla nostra lingua in ragione delle vesti che uomini e donne ricoprivano nella società nei secula seculorum».
In relazione al caso di Trento, Gheno sostiene che ciò che viene implementato in alternativa all’uso automatico del maschile sovraesteso è «positivo», in quanto costringe a pensare di più a ciò che si sta leggendo, crea una discontinuità nel testo e richiama l’attenzione su qualcosa di cui molte persone non si accorgono. Occorre, però, ricordarsi che non è nulla di nuovo: si tratta di una strategia adottata dai tempi delle raccomandazioni per uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini del 1986-1987. «Nei circuiti femministi, è una lotta che si è sempre portata avanti», ricorda la linguista. Ciò che vale la pena osservare, invece, è che «dopo tutti questi anni, una proposta di questo tipo provoca tante discussioni, proteste e fastidi. Ricorrere al femminile sovraesteso, secondo la specialista, è un «piccolo passo in avanti, ma non sufficiente: le differenze esistono e vanno gestite». Un compito arduo con epicentro nella società.
Leggi anche: https://zetaluiss.it/2024/04/05/biennale-di-venezia-2022-conversation-piece-chiara-enzo/