Al piazzale della Farnesina kefiah al collo, pennone in mano attaccato al quale sventola una bandiera coi colori della Palestina e un gruppo ristretto di ragazzi e ragazze urlano: «I popoli in rivolta scrivono la storia, intifada fino alla vittoria». Gli studenti sono in protesta da settimane per chiedere ai loro Atenei la sospensione degli accordi bilaterali con le università israeliane: «Negli ultimi mesi abbiamo studiato la struttura dell’università israeliana in tutte le sue contraddizioni a partire da quelle costruite sui territori occupati fino ad altre in cui si sviluppano gli strumenti di controllo del popolo palestinese» dice Filippo Girardi del collettivo universitario Cambiare Rotta.
La vertenza specifica oggetto delle proteste è il bando MAECI in scadenza il dieci aprile che ambisce a implementare la collaborazione tra ricercatori italiani e israeliani in progetti nel campo della tecnologia e della sostenibilità. Qualche risultato è stato conquistato: il Senato Accademico di Torino ha deciso di non rinnovare il bando per l’anno corrente, e a Bari gli studenti sono riusciti a ottenere un’udienza in rettorato.
Il nove aprile, il giorno prima della scadenza del bando MAECI, è stato indetto uno sciopero generale e gli studenti romani hanno deciso di manifestare di fronte al ministero degli affari esteri per chiedere un confronto diretto con Antonio Tajani.
Il ritrovo è alle quindici adavanti all’edificio razionalista sede del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Alle tre e mezza sono arrivati tutti- si contano una quarantina di partecipanti- e ha inizio il presidio coordinato da Girardi: «Abbiamo passato la mattinata tra assemblee e flash mob dislocati nelle varie sedi di Sapienza e siamo in contatto con gli altri atenei in sciopero oggi. La campagna di boicottaggio serve a mandare un allarme allo stato di Israele e a lanciare un forte segnale di dissenso».
Le scritte sugli striscioni parlano chiaro, per i ragazzi il bando MAECI è “la punta dell’iceberg”: «Fa parte di un processo di inserimento delle Università all’interno della filiera bellica come conseguenza esistono organizzazioni come la Fondazione Med-Or capitanata da Marco Minniti, già responsabile della trucidazione dei migranti in Libia» dice Cambiare Rotta. I rettori che siedono al tavolo di Med-Or sono diciannove e questo per i manifestanti è un problema: «L’università appartiene al popolo, non ai dirigenti» sostiene al microfono Giulia Calò di Potere al Popolo, unico partito che sostiene la protesta studentesca.
La mobilitazione non riguarda soltanto gli studenti, anche i professori sono coinvolti. Dopo il 7 ottobre è nato il “Comitato per la Palestina” che riunisce docenti e iscritti all’Università dove si cerca un dialogo costante e paritario. Laura Guazzone, che insegna storia contemporanea del mondo arabo alla Sapienza, è consapevole dei rischi: «So che potrebbero esserci dimostrazioni antisemite, razziste e persino violente, il nostro compito è garantire la tenuta democratica anche nel dissenso. Ci confrontiamo ogni giorno con colleghi che la pensano in maniera diversa e che temono un’ondata di odio, ma noi siamo qui per segnalare il doppio standard con cui il conflitto in Palestina è trattato da settantacinque anni. I rapporti con gli atenei russi sono stati interrotti, perché con quelli israeliani no?».
Dalle quindici fino a sera si sono susseguiti ai microfoni rappresentanti di associazioni e gruppi universitari e liceali, Antonio Tajani non si è visto, in compenso il ministro degli Esteri di Israele, Israel Katz, a Roma per un incontro alla Farnesina, si è detto disponibile a incontrare gli studenti che hanno risposto negativamente. Nonostante l’insuccesso dato dalla scarsa affluenza e dal mancato incontro con la rappresentanza del ministero degli Esteri i gli studenti in protesta non si sono persi d’animo e hanno gridato al microfono: «La lotta non si ferma qui».
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