Esclusiva

Maggio 23 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Giugno 6 2024
Antonella Lattanzi, cose che vanno raccontate

“Cose che non si raccontano” è tra i dodici libri in concorso per il premio Strega 2024. L’autrice parla della sua vita attraverso le pagine del romanzo

Frasi che si inseguono l’una dopo l’altra senza interruzioni, senza lasciare alle parole lo spazio necessario per rendere la realtà meno dura. Le prime pagine dell’ultimo libro di Antonella Lattanzi, “Cose che non si raccontano”, candidato al premio Strega 2024, si aprono con la descrizione di un corpo sofferente, quello della scrittrice.

Il sangue le copre i vestiti, macchia le lenzuola, rompe la diga costruita per contenere quella marea di segreti ammassati, perché una sofferenza così grande non può essere raccontata. Certe cose diventano troppo vere se condivise e raccontarle sarebbe quasi sadico. La preoccupazione verso gli altri cela, attraverso un’empatia che protegge più se stessa che chi le sta intorno, un affetto che l’autrice non si vuole concedere, ma di cui ha bisogno per non lasciarsi immobilizzare dalla commiserazione.

Il tempo della sua vita è scandito con precisione matematica. A dividerlo è il numero di operazioni che il corpo subisce ogni volta che si ribella al cuore che batte nel suo grembo. «Avrei dovuto proteggerli dalle ginocchia sbucciate, avrei dovuto proteggerli dal caldo, avrei dovuto proteggerli dalla paura della morte, dalla paura che io morissi, dalla paura che i loro padri morissero. Sono una madre terribile, perché invece di proteggere, io ho fatto parte di ciò che ha ucciso i miei figli».

Alcune pagine sono dedicate per intero a una sensazione di delusione. I grandi spazi bianchi che le incorniciano racchiudono tutto il disprezzo per chi, come lei, ha scelto il lavoro, la scrittura anche nel momento del lutto. La moralità si oppone a questa insensibilità sfacciata. «Cos’è un libro davanti a tutto questo dolore? Niente. Voglio cancellare questo capitolo».

Il muro che nascondeva tutte le emozioni si sgretola, l’odio si alterna al senso di colpa. Appena maggiorenne, l’interruzione di due gravidanze le aveva permesso di seguire la sua ambizione letteraria. Quei primi aborti volontari alimentano una certa visione provvidenziale, punitiva e cattolica dell’esistenza, riservata ad una donna che ha permesso alla carriera di prendere il sopravvento sulla sua maternità.

La vita non funziona così, Lattanzi ne è convinta, eppure non riesce a scrollarsi di dosso un velo scaramantico che sopravvive alla fede. «In ospedale è entrato un prete. Ha detto: “Battezzali questi tre bambini morti”. E mi ha dato una collana: la croce col tau. L’ho buttata appena sono uscita dall’ospedale. Avevo paura a buttarla mentre ero lì. Avevo paura che portasse male, avevo paura di morire».

La narrazione prosegue nel tentativo di trovare colpevoli, ma la ricerca si interrompe tornando sempre alla scrittrice. «Non è solo la storia di una madre. È anche quella di un padre. Sarei un’egoista», ma lo scritto la tradisce ogni volta che descrive l’incomunicabilità della sua sofferenza. Andrea, il compagno, è il protagonista di un altro racconto, di un altro corpo, di un male che non ha niente di fisico, di un dolore che non è lo stesso.

«Tutta quest’ansia la ingoierò», si ripromette Lattanzi in uno dei suoi discorsi interiori con la madre che sarà. Questo monito si rivelerà più utile qualche anno più in là quando, dopo aver subito cure mediche inappropriate e conversazioni spietate, inizia a cambiare e a concedersi un po’ d’amore. Al suo mutamento corrisponde una metamorfosi della scrittura rispetto alle opere precedenti. Vecchie emozioni dimenticate e parole nuove. Per chi sopravvive ai propri figli non esiste un nome, come orfano o vedovo. Esiste un libro.

Leggi anche: https://zetaluiss.it/2024/05/23/cultura-premio-strega/