Esclusiva

Maggio 23 2024.
 
Ultimo aggiornamento: Giugno 6 2024
“L’età fragile” non esiste perché lo siamo sempre

Donatella Di Pietrantonio dedica il suo nuovo romanzo «a tutte le sopravvissute» e si candida tra i dodici finalisti del “Premio Strega 2024”

«Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire».

Forse non c’è un’età fragile nella vita, perché alla fine lo siamo sempre. Da bambini lo si è per ingenuità, purezza, ignoranza. Durante l’adolescenza ci si spezza con più facilità, alla ricerca di un filo che tenga insieme la nostra esistenza. Da adulti si pensa di poter mettere da parte le debolezze, per accorgersi che – prima o poi – bisognerà affrontare quanto pensavamo di esserci lasciati alle spalle.

Donatella Di Pietrantonio – dopo essere rientrata nella cinquina finalista del Premio Strega 2021 con Borgo Sud – torna in libreria con L’età fragile, un romanzo candidato tra i dodici finalisti dello Strega 2024. Ispirandosi a un episodio di cronaca realmente accaduto nel 1997 sulla Maiella, in Abruzzo, l’autrice scrive la storia di Lucia, una fisioterapista che si sta separando dal marito Dario, e sua figlia Amanda, che ritorna a casa da Milano dove studia all’università. Racconta di due uomini, prima amici e poi padri, e di tre ragazze scomparse un giorno di agosto al Dente del Lupo, una delle vette del Gran Sasso, vicino Pescara. 

Un rapporto tra genitori e figli fatto di assenze, un matrimonio distrutto, il peso di aver scampato una tragedia, una ventenne che prima aveva «le luci della città negli occhi» e ora «sembra piuttosto una creatura vulnerabile, appena uscita da un regno di ombre». La scelta di vendere o salvaguardare il terreno della propria famiglia, un luogo intriso di dolore che trasuda rancore e rabbia. Il tutto sullo sfondo di un crimine, chiamato «il fatto», e le sue conseguenze sulla località e le persone che ci vivono.

«A un certo punto la vita accelera. Dopo resta tutto fissato a un’immagine, un suono del momento. Si torna sempre lì».

Lo stile asciutto, duro ed essenziale. Una voce narrante, quella di Lucia, schiva, spesso scettica, segnata dai traumi del tempo. Un passaggio tra discorso diretto e indiretto che sfiora il “flusso di coscienza” di James Joyce e Virginia Woolf. Salti temporali decisivi, che tracciano una linea netta tra prima e dopo l’avvenimento.

Di Pietrantonio accompagna per mano il lettore verso alcune riflessioni, che la protagonista tarda a compiere per paura di scontrarsi con una verità che farebbe troppo male: il passato condiziona il nostro presente. Quanto è complicato liberarsi di un’ombra che continua a seguirci, nonostante il passare degli anni? A volte, risanare le cicatrici è difficile, soprattutto se cerchiamo di dimenticare al posto di ricucire. Come ha scritto Isabel Allende: «È inutile ricoprire di terra le ferite psicologiche, bisogna farle respirare affinché possano cicatrizzare».

Infine, la scrittrice definisce la relazione intricata tra l’essere umano e la violenza. Lo fa fin dalle prime righe, inserendo una citazione in esergo di Simone De Beauvoir: «Non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo». Se è vero che «nessun posto è sicuro» e «dove arriva l’uomo, può portare il male», insegnare l’amore, la parità e il rispetto reciproco appare l’unica soluzione per proteggersi.

La nostra unica eredità sono le ferite? Con un libro che ricalca le orme di un’attualità che fatica a fare i conti con la realtà dei fatti e a raccontare con le parole giuste i femminicidi in aumento, l’autrice fa una denuncia dell’Italia degli anni Novanta e di quella di oggi, nella speranza che un domani il desiderio di rivalsa delle nuove generazioni e la voce delle «sopravvissute», facciano più rumore del «silenzio della valle» del Dente del Lupo.

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