L’Iran, al primo posto nel mondo per esecuzioni capitali, è tra i protagonisti dell’anno in cui autocrazie e democrazie si confrontano con il voto. Il prossimo 28 giugno quasi novanta milioni di cittadini sono chiamati a scegliere il nuovo presidente, dopo la morte in un incidente aereo di Ebrahim Raisi, figura vicina alla Guida suprema Ali Khamenei.
Secondo il ricercatore dell’Ispi Luigi Toninelli, «gli iraniani voteranno in un clima di sfiducia verso le istituzioni», perché «la popolazione è disillusa in un sistema in crisi di legittimità politica e ideologica, e sa che un reale cambiamento non potrà avvenire attraverso le urne».
Sei sono i candidati approvati dal Consiglio dei guardiani, l’organo che controlla il processo elettorale. Tra gli ammessi, il più accreditato è il presidente del Parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf, «un conservatore opportunista già membro dei pasdaran, sindaco di Teheran e accusato di corruzione». Gli altri due nomi papabili per la vittoria sono Saeed Jalili, esponente radicale «che sta dimostrando di conoscere poco il paese reale ma ha forte sostegno da parte dell’establishment», e Masoud Pezeshkian, l’unico concorrente riformista in corsa.
Fra i temi al centro della campagna ci sono l’economia, con il nodo dell’alta inflazione, l’impatto delle sanzioni e le proposte di politica sociale. In Iran, il sistema reprime l’espressione della cultura e l’arte, i diritti umani e l’emancipazione femminile, milioni di donne rischiano di esser arrestate e sanzionate perché non indossano l’hijab, sono trascinate per strada con l’accusa di non farlo nel modo “corretto”. Il nome scolpito nella memoria è quello di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia morale a soli 22 anni, onorata al funerale al grido di “Morte al dittatore” e con veli neri di dissenso sventolati in aria.
La sua lotta per la libertà è condotta dall’avvocato Narges Mohammadi, una delle attiviste punite con il carcere per la coraggiosa opposizione al regime. Accende un barlume di speranza l’annullamento, da parte della Corte suprema, della condanna a morte del rapper Toomaj Salehi, accusato di “corruzione” per le canzoni critiche verso il regime e sostenitore del movimento Donna, vita e libertà.
Un fattore da considerare è l’astensionismo, dato che «le tre precedenti tornate elettorali hanno avuto i tassi di partecipazione più bassi della storia iraniana» ricorda Toninelli. Solo il 41% ha votato lo scorso marzo in occasione delle elezioni del Parlamento e dell’Assemblea degli Esperti. Si tratta del dato più basso dalla nascita della Repubblica Islamica, un «plebiscito contro gli ayatollah», scrive il giornalista Federico Rampini nel volume “Il nuovo impero arabo”.
Nonostante ciò, per Toninelli, la volontà di evitare un governo radicale o conservatore, e la campagna di Pezeshkian – fatta di incontri nelle università e dibattiti coi giovani – potrebbero favorire l’affluenza e aumentare le possibilità dell’esponente moderato. Per questo, il fronte conservatore lo teme e sta pensando di coalizzarsi, esprimendo un unico candidato, ma si tratta di un’ipotesi molto difficile. È infatti improbabile che uno dei due candidati conservatori si ritiri per sostenere l’altro.
Intanto, nel Medio Oriente in fermento, la teocrazia continua a sostenere le milizie dell’Asse della resistenza, come i gruppi iracheni e siriani, Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen. Tuttavia, per l’esperto, il sostegno è diminuito nel corso degli ultimi anni, e «i gruppi hanno acquisito maggiore autonomia operativa, agendo spesso in modo indipendente rispetto ai dettami dell’Iran». Resta intatto però il desiderio di distruggere lo Stato d’Israele, un argomento ricorrente nella retorica di Teheran.
Uno dei timori è il programma di arricchimento dell’uranio, un’arma sul piano geopolitico considerando che, con il tycoon repubblicano Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo sul nucleare iraniano. Siglato sotto la presidenza Obama da Cina, Russia, Regno Unito, Francia, Germania e Unione europea nel 2015, prevedeva meno sanzioni all’Iran in cambio dell’imposizione di limiti al suo progetto atomico.
Nel periodo in cui l’intesa era attiva, il paese possedeva meno di 300 kili di uranio arricchito sotto al 3,67%, mentre oggi ne ha oltre 6000, di cui 142 arricchiti al 60% e «se volesse, potrebbe ottenere il quantitativo di uranio utile a produrre la prima bomba atomica in meno di una settimana», sostiene il ricercatore. «Quello che è sempre mancato a Teheran – continua Toninelli- è la volontà di avere un’arma nucleare, perché ha preferito minacciare l’Occidente e guadagnare sul piano negoziale». Come lamentato più volte dalla comunità internazionale, la Repubblica islamica ha già limitato la capacità dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea) di controllare la sua attività.
Nella patria dell’oscurantismo religioso e della sharia, in cui «i militari stanno assumendo sempre più potere», sarà il voto il primo indizio per capire se la componente riformista, da anni emarginata, continuerà a non avere spazio.