Ci dobbiamo preparare a quando, senza il minimo stupore da parte di nessuno, il presidente della Fifa Gianni Infantino l’11 dicembre annuncerà che sarà l’Arabia Saudita ad ospitare i Mondiali di Calcio del 2034. È l’unico Paese candidato dopo il ritiro dell’Australia. Prepariamoci anche, per tempo, alle polemiche che precederanno il torneo, in un dejà vu di quanto successo prima dell’edizione in Qatar nel 2022 I campioni del futuro competeranno in stadi che ancora non esistono. Uno di questi, però, è già in costruzione: l’Aramco Stadium di Al Khobar, città costiera che affaccia sulle acque del Golfo Persico. I rendering del progetto mostrano un involucro coperto di pannelli che scintillano alla luce del tramonto; un’inchiesta di Pete Pattisson del Daily Mail rivela la realtà oscura dietro gli slogan promozionali.
Sotto il sole che batte a 45 gradi, faticano, sollevando barre d’acciaio, picchiando la pietra e impastando cemento, lavoratori migranti – la maggior parte dal Bangladesh – pagati poco più di 2 euro l’ora. «Anni di stipendio sono usati solo per ripagarsi il viaggio”, commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, una delle organizzazioni che hanno subito acceso i fari sulle gravi problematiche legate ai Mondiali in Arabia Saudita. Proteste sorvolate dalla federazione internazionale del calcio: «Hanno chiesto una valutazione ad uno studio legale, Clifford Chance, che ha una filiale in Arabia», prosegue. «Ma la valutazione è stata fatta senza il confronto con sindacati o organizzazioni locali per i diritti umani. Ha quindi edulcorato il tema e la Fifa ha colto l’occasione per togliersi un ostacolo».
I cantieri per gli stadi: la schiavitù del debito
«Come Amnesty International abbiamo posto l’accento anche sulla situazione dei diritti umani. L’Arabia saudita rappresenta uno scenario terribile su questo frangente». Non sono garantiti i più basilari diritti alle donne e alla comunità LGBTQI+, ma l’organizzazione ha investigato anche sulle modalità di assunzione dei migranti: «È portata avanti da società saudite simili alle nostre agenzie interinali, ma a volte con connessioni con soggetti nei Paesi d’origine. Per i lavoratori si crea una “catena di indebitamento”. Le agenzie si fanno pagare per trovare impiego, ma nel frattempo il soggetto migrante si è già indebitato con strozzini locali per pagarsi il viaggio».
Per i primi due anni in Arabia Saudita, si lavora solo per ripagare questi intermediari. Altre volte gli stipendi sono trattenuti dai datori per evitare che gli operai se ne vadano. A loro tutela non c’è neanche un contratto: sono di fatto dei freelance. Non hanno neanche buste paga, ma lo stipendio gli è consegnato in contanti dopo aver presentato la propria impronta digitale.
La costruzione dell’Aramco è andata avanti per tutta l’estate. Una sola breve pausa a metà giornata, con caldo e umidità altissimi. «Siamo inzuppati di sudore. Dobbiamo strizzare i nostri vestiti due o tre volte a turno», dice un operaio al Daily Mail.
Condizioni terribili sono anche quelle degli alloggi: sporcizia e vestiti da lavoro impolverati riempiono stanze anguste e squallide in cui dormono cinque o sei uomini. Nello stesso spazio sono costretti a cucinare su fornelli sudici da anni di usura.
Un inferno in cui i migranti sono bloccati: dalle condizioni di povertà estrema delle loro famiglie in Bangladesh e negli altri paesi d’origine, ma anche dai datori, che spesso gli sequestrano il passaporto per evitare che vadano in giro. Questo ricatto non riguardano solo quelli che lavorano nei cantieri degli stadi e delle infrastrutture in vista della Coppa del Mondo del 2034, ma tutti i migranti in Arabia Saudita.
La Kafala
Dello stipendio mensile, l’equivalente di una settimana di lavoro va poi agli sponsor sauditi: tutori legali – spesso gli stessi datori – che garantiscono per il loro permesso di soggiorno. È il sistema della Kafala – che il governo sostiene di aver smantellato – : «È l’architettura dello sfruttamento dei migranti: non esiste un salario minimo, nessuna possibilità di iscriversi a sindacati, assenza di misure contro morti sul lavoro», aggiunge Noury su questa schiavitù moderna.
Sarà la seconda edizione organizzata sotto questo sistema dopo Qatar 2022. «È un istituto storico della penisola araba, con un suo senso nei tempi antichi, ma decisamente inattuale nel mondo di oggi», dice Valerio Moggia, curatore del blog Pallonate in Faccia e autore del libro La coppa del morto. Storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere (Ultra Sport), che racconta proprio le violazioni dei diritti umani nell’organizzazione dei Mondiali di due anni fa. «Rispetto al caso del Qatar, quello dell’Arabia Saudita non presenta quasi nessuna differenza. Se non nelle operazioni di calciomercato che sono servite a presentarsi alla comunità calcistica internazionale. Il piccolo emirato nei primi anni Duemila attrasse calciatori a fine carriera come Batistuta o Pep Guardiola, l’Arabia Saudita, invece, giocatori di primo livello come Ronaldo, Kantè, Milinkovic-Savic». Grandi nomi che sono serviti a costruire una legittimità nel discorso sportivo, «però sappiamo tutti che hanno una buona squadra e la prima volta si sono qualificati al mondiale nel 1994», come ricorda Moggia.
Che fare?
Già dalla fine di Qatar 2022 la strada che avrebbe portato la Fifa sempre più vicino alle monarchie del golfo era segnata. Il calcio fa parte di una politica di avvicinamento del Paese governato dalla dinastia dei Saud all’Occidente. Un programma sintetizzato nel documento Saudi Vision 2030, in cui si prospetta il futuro del regno oltre i combustibili fossili. Le preoccupazioni sul rispetto dei diritti umani sul luogo di lavoro e fuori, però, rimangono e sono espresse ancora da tante organizzazioni internazionali. Molto meno dal mondo del calcio. «Prima dell’edizione di Qatar 2022 ci fu una presa di posizione, ma limitata quasi esclusivamente all’Europa del Nord: giocatori inglesi, tedeschi, olandesi, danesi. La denuncia più forte fu quella della Federcalcio della Norvegia (non qualificata)», ricorda Moggia. «Però fu molto più di quanto fatto per altri mondiali in Paesi in cui non si rispettavano i diritti umani. Speriamo si vada a migliorare».
Una speranza potrebbe risiedere il calcio femminile. A fine ottobre 106 giocatrici professioniste di varie nazionalità hanno inviato una lettera alla Fifa per invitarla a riconsiderare gli accordi di sponsorizzazione con la società petrolifera di Stato Saudi Aramco. Una protesta mossa da motivazioni umanitarie – in particolare sul rispetto dei diritti delle donne e LGBTQI+ -, ma anche ecologiche. «C’è sempre un accordo con queste grandi compagnie statali a precedere l’assegnazione di un torneo: è stato così con Qatar Airways e Gazprom per la Russia», sottolinea Moggia.
Se si mette in moto la macchina degli investimenti e dell’organizzazione sembra impossibile incepparla. Al momento, infatti, non ci sono grandi scontenti. «Quando la FIFA ha deciso di votare in blocco 2030 e 2034, ha creato una condizione capestro», dice Noury, «perché gli europei sono contenti di avere Spagna e Portogallo, gli africani di avere il Marocco, e quindi devono votare anche per l’Arabia Saudita». Per chi lotta per i diritti umani, però, la speranza è davvero l’ultima a morire: «Non è mai troppo tardi per sospendere la procedura di candidatura».