Doveva essere il presidente chiamato a traghettare la Siria nel nuovo millennio, ma Bashar al-Assad è diventato presto il simbolo di un regime che, nonostante rivolte, crimini contro l’umanità, guerre e isolamento internazionale, non è caduto. Quando nel 2000 eredita la presidenza dal padre Hafez, molti vedono in lui una possibilità di cambiamento. Giovane, con una formazione da medico lontana dalla politica brutale del passato, Bashar sembra destinato a inaugurare una nuova era per il suo Paese. Ma la speranza svanisce presto: prevale la continuità con la repressione militare.
Undici anni dopo, la Primavera Araba cambia radicalmente lo scenario. Nel 2011, il vento di rivolta che soffia sul Medio Oriente arriva anche a Damasco. Le piazze si riempiono di cittadini che chiedono riforme, ma il governo risponde con una brutalità feroce. Le manifestazioni pacifiche si trasformano in una guerra civile, dando il via a un conflitto senza fine.
Oggi, più di un decennio dopo, Assad si trova in una posizione sempre più fragile. La recente caduta di Aleppo nelle mani dei ribelli segna un duro colpo per il suo governo, già incapace di garantire il controllo su vaste aree del Paese. «Non è riuscito a riconquistare gran parte del territorio né a stabilizzare la situazione», sottolinea Olivier Roy, esperto di cultura islamica e politologo francese. «Non ha saputo negoziare con l’opposizione o con gli Stati vicini, restando immobile e affidandosi solo agli alleati russi e iraniani».
Il sostegno della Russia, determinante nel 2015 per evitare il collasso del regime, adesso mostra segnali di incertezza. Con l’impegno sul fronte ucraino, Mosca limita il proprio intervento a un supporto aereo, ma resta da vedere se sarà sufficiente. «Putin vuole che Assad resti al potere», spiega Roy, «ma se il sostegno attuale non dovesse bastare, Mosca potrebbe trovarsi di fronte a scelte difficili».
Anche l’Iran, alleato chiave, opera in un contesto sempre più complesso. L’ingresso recente di milizie della Repubblica islamica in Siria per contrastare l’avanzata jihadista segnala un panorama in rapida frammentazione. Nel frattempo, la comunità internazionale resta inerte. Gli Stati Uniti, un tempo favorevoli alla caduta dell’esecutivo, ora osservano gli eventi senza una strategia definita. «La posizione americana è cambiata rispetto al 2014», afferma Roy. «Durante l’amministrazione Obama si sperava nella caduta di Assad. Oggi manca una visione per il futuro della regione».
Il dittatore siriano, sopravvissuto a più di un decennio di guerre e isolamento, è il simbolo di una tirannia in declino. Damasco rimane ancora sotto il suo controllo, ma il suo potere è sempre più vacillante. Il giovane presidente che prometteva modernità si è trasformato in un leader assediato, incapace di fermare la frammentazione dello Stato.