La telefonata tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin del 3 dicembre arriva in un momento critico per gli equilibri internazionali. Sullo sfondo, una Siria in fiamme, dove l’avanzata jihadista ad Aleppo riporta in primo piano le fragilità del presidente Bashar al-Assad. A centinaia di chilometri di distanza, da Ankara e Mosca, i due leader discutono della stabilità di un’intera regione, cercando di bilanciare diplomazia e interessi.
Erdogan si mostra determinato: la Turchia sostiene l’integrità territoriale siriana, ma chiede che Assad faccia la sua parte per avviare un processo politico credibile. “I civili non possono continuare a essere vittime di questo conflitto», ha ribadito il presidente turco, aggiungendo che il suo Paese non permetterà che le organizzazioni terroristiche, in primis il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), approfittino del caos. La Siria per Ankara non deve trasformarsi in una fonte di instabilità ancora più grave per l’intera area.
Dall’altro lato del telefono, Putin ascolta e calibra le risposte. Per Mosca, il regime di Damasco rappresenta un tassello fondamentale nella strategia mediorientale. «La Russia è intervenuta per salvare Assad e non lo può abbandonare», spiega Guido Olimpio, giornalista del Corriere della Sera esperto di Medio Oriente. «Considerano la Siria come l’ultimo avamposto della regione». Sin dal 2015, il Cremlino ha investito risorse enormi, considerando Damasco non solo un alleato, ma anche una piattaforma per riaffermare la propria influenza. Tuttavia, il leader russo sa che la situazione è tutt’altro che sotto controllo: l’assedio dei ribelli ad Aleppo dimostra quanto la posizione del rais sia fragile, nonostante il supporto militare e diplomatico della Russia.
Il dialogo tra i due capi di Stato non è solo una questione di cortesia diplomatica. La Turchia, da anni, si muove su un doppio binario. Da una parte, cerca di contenere le minacce alla propria sicurezza nazionale, soprattutto lungo il confine siriano, dove operano gruppi armati ostili al governo di Erdogan. Dall’altra, tenta di assumere il ruolo di mediatore, mantenendo aperto un dialogo con Mosca e con altre potenze coinvolte. Tuttavia, come sottolinea Olimpio, «per ora si tratta di intese temporanee. Tentativi che possono ridurre la tensione, ma che altre volte si arenano. L’offensiva dei ribelli, per esempio, è avvenuta per un fallimento: il governo di Damasco non ha voluto trattare».
La Russia gioca una partita ancora più ampia: consolidare la propria presenza in Medio Oriente, sfruttando le debolezze degli altri attori globali. La sua strategia si basa su un pragmatismo che le consente di dialogare con Paesi rivali tra loro, come Iran, Israele e Turchia. «Il rapporto tra Putin e Netanyahu è emblematico», osserva Olimpio. «Nonostante controlli la difesa antiaerea, Mosca non ha mai fermato i raid israeliani in Siria. Esiste un accordo tacito tra i due Paesi».