«Stiamo per arrivare, ora chiudo e ti chiamo domani». Era l’urlo di speranza che Fawzia dice alla sorella prima che il suo sogno di cominciare una nuova vita si trasformi in altro.
All’alba del 26 febbraio 2023, a poche decine di metri dalla costa di Steccato di Cutro, un’imbarcazione affollata e piena di vite si spezzava tra le onde. A bordo uomini, donne, bambini.
Non c’era una meta chiara, l’obiettivo di quel viaggio però era comune a tutti: trovare un destino diverso da quello che avrebbero avuto nel proprio paese d’origine. Le acque fredde della Jonio però non hanno restituito le aspettative di partenza.
Un numero imprecisato quello dei corpi inghiottiti dai fondali. 94, di cui un terzo bambini, quelli che hanno avuto uno spazio nella camera ardente allestita all’interno del PalaMilone di Crotone. Ancora meno i sopravvissuti.
Tra loro c’era Fawzia. Lei e il marito, ex soldato afghano fuggito dai talebani, sono sopravvissuti aggrappati a un materasso. I loro due bambini sono stati travolti dall’acqua e ripresi con fatica. Oggi vivono in Olanda, ma il dolore di quella notte li perseguita ancora. «Spesso sogniamo quei momenti terribili che ritornano come un incubo costante», racconta.
«Ci avevano detto che ci avrebbero aiutato a identificare le salme disperse, a ricongiungere i familiari con un corridoio umanitario. A fare giustizia sulle cause della strage. Ma nulla di tutto questo è avvenuto», denuncia un parente di una delle vittime. A due anni dalla strage, il dolore delle famiglie si unisce alla frustrazione per le promesse non mantenute.
Namzai, che ha perso 16 familiari nel naufragio, ha scelto di vivere questo anniversario in Iran, accanto ai cari rimasti. «Non voglio essere solo, pensando a quella strage», dice con voce spezzata. Anche il giornalista Alidad Shiri ha perso un familiare. Il cugino 17enne non è stato ancora ritrovato. «Abbiamo trovato il coraggio di dire alla zia che il figlio non c’è più, – scrive Alidad in una lettera di ricordo – ma lei non si rassegna. Prega ogni giorno».
Poi denuncia: «Viviamo tutti i giorni con questa angoscia, con un dolore che ci consuma, nella speranza che il corpo di mio cugino sia riportato a casa, ma anche con una ferita che non si rimargina». Due anni senza alcuna risposta, e «le promesse fatte dalle istituzioni e dal governo sono rimaste vuote», ribadisce.
Il 5 marzo inizierà il processo per stabilire le responsabilità di quel naufragio. Sei i militari finiti sotto accusa nell’inchiesta della procura di Crotone. Secondo i magistrati, non avrebbero fatto abbastanza per scongiurare la tragedia. Quattro degli imputati appartengono alla guardia di finanza, con l’accusa di non aver attivato in tempo l’intervento della guardia costiera. Due ufficiali di coordinamento di Roma e Reggio Calabria di quest’ultima avrebbero commesso errori nella localizzazione del natante e non avrebbero qualificato l’evento come un’operazione di soccorso in mare. In appello a Catanzaro è stata confermata invece la condanna a 20 anni di reclusione per Gun Ufuk, il turco considerato il meccanico dell’imbarcazione e per il siriano Abdessalem, per gli inquirenti era lui al timone. Non ha mai affrontato il processo Guler Bayram, il presunto comandante del dell’imbarcazione, morto nel naufragio.
Le famiglie delle vittime si chiedono se davvero ci sarà giustizia, se qualcuno pagherà, se le cose cambieranno. «Ogni giorno ci chiediamo come sia possibile che nessuno abbia fatto abbastanza», scrive il giornalista. Cutro è il simbolo di una città che non deve essere dimenticata. Una memoria che chiede risposte.
«La nostra vita è cambiata per sempre, ma la ricerca della verità, quella continua a rimanere sospesa. Noi familiari con le lacrime agli occhi e le ferite aperte speriamo che non succeda più una simile tragedia».