«La repressione entrava dentro le case. A mio fratello non potevo dire molte cose perché non sapevo se era con me o con il regime». A parlare è Davood Karimi, presidente dell’Associazione rifugiati politici iraniani residenti in Italia. Da oltre quarant’anni vive in Italia, aiutando chi fugge dalla repressione iraniana e continuando a sognare un futuro migliore per il suo Paese.
Ha vissuto in prima persona le fasi più sanguinose del cambio dal regno dello Scià alla repubblica islamica degli Ayatollah. Un momento che avrebbe dovuto significare libertà, ma che si è presto trasformato in una nuova forma di oppressione. «Noi abbiamo fatto la rivoluzione per cacciare via un sistema corrotto, dittatoriale, oppressivo. Ma come si può pensare, dopo 50 anni, di tornare indietro? I servizi segreti dello Scià, la Savak, era addestrata dall’Occidente, hanno imparato tutto da loro comprese le torture. Non si poteva parlare liberamente, da noi si diceva: “il muro ha le orecchie”». Karimi spiega come la Savak fosse attiva anche nella censura culturale: «Se avessi fatto un film sarebbe bastato un piccolo accenno alla povertà diffusa in Iran per censurarlo».

Da regime dello Scià a quello degli Ayatollah
Negli anni ’50 viene eletto Mohammad Mossadeq come primo ministro che nazionalizza il petrolio iraniano. «Mossadeq fa uno sgarbo all’Inghilterra che aveva contatti con lo Scià e per questo motivo l’Occidente opta per un golpe anglo-americano (ndr. Operazione Ajax)». Viene chiesto allo Scià di dare vita a una rivoluzione bianca che ha come intento la modernizzazione del Paese. Tra i punti critici c’è il voto alle donne. «I mullah si ribellarono e a capo della rivolta c’era Khomeini – racconta Karimi- e per calmare i religiosi, il regime ha costruito migliaia di moschee, un sistema economico enorme. Ogni fedele donava il 5 o il 10% del proprio reddito annuale». Nel frattempo, nelle università si formano due movimenti rivoluzionari: uno di ispirazione marxista, i Fedayyin-e khalq (volontari del popolo) e i Mojahedin del popolo iraniano (MEK), islamico moderato di ispirazione democratica. «All’epoca la vita di un guerriero era di sei mesi. Avevano lo stesso obiettivo e volevano l’abbattimento del regime dello Scià tramite la resistenza armata. Entrambi hanno avuto centinaia di caduti. Chi non moriva in strada veniva arrestato e processato dai tribunali militari».
Lavorando in segreto, all’inizio della rivolta non era chiaro quali fossero le fazioni contro lo Scià. «Noi ragazzi ci trovavamo in strada e c’erano anche i mullah (vicini, invece, agli ayatollah). Nonostante anche loro volessero la caduta dello Scià, si scontravano con gli altri due movimenti perché li etichettavano come “contro Dio”».
La rivoluzione vince. Per sei mesi si forma un governo con Mehdi Bazargan, espressione dei mojahedin e di grande consenso popolare. «Il nuovo regime si spaventa e crea bande di manganellatori. In due anni sono stati uccisi 70 simpatizzanti come me», racconta Karimi. In questo clima, in due anni, si arriva alla «dittatura religiosa voluta dalla politica di accondiscendenza di angloamericana».
La storia di Karimi
«Io sono sceso in piazza, ho preso le armi e ho combattuto. Ho visto morire tanti amici. L’ordine di Khomeini era di non usare le armi, noi abbiamo disobbedito e attaccato le basi militari e i commissariati per occuparli. Sono rimasto ferito da alcune pallottole a un piede». Una volta finito il liceo uno zio gli propone di entrare nella Savak e nel frattempo di studiare all’università nazionale. «Quando lo dissi a mio padre, funzionario di polizia anche lui, mi diede uno schiaffo e mi disse “qua ti fanno diventare un medico criminale”». Nel 1980 parte per gli Stati Uniti per studiare medicina. Uno scalo a Roma, però, infrange i piani americani e lo fa fermare qui per sempre. L’ultima volta che è tornato è restato solo quindici giorni perché «l’aria era troppo pesante».

Gli studi in medicina si concludono dopo un anno e mezzo perché «sui libri vedevo le facce dei ragazzi iraniani fucilati». Fonda una associazione per aiutare chi fuggiva dall’Iran: «Con il dottor Marino Norris, responsabile della direzione del Fatebenefratelli, curavamo i richiedenti asilo: uomini, donne e bambini, molti dei quali orfani». Oggi continua la sua lotta per i diritti umani e contro la repressione con sua moglie, Sholeh Shahrzad, presidente dell’Associazione donne democratiche iraniane in Italia e i suoi figli, Amir e Azar, entrambi attivisti dell’associazione giovani iraniani. Quando si chiede al figlio Amir come si immagina l’Iran del futuro, risponde: «Vorrei un Iran sorridente, senza le carceri per il pensiero, senza la bomba atomica e senza la pena di morte».

Tra resistenza, Cecilia Sala, Trump e cittadinanza
La resistenza iraniana ha il volto femminile. «Il sangue della donna – rivendica Karimi – scorre in questa rivoluzione. Maryam Rayavi, presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza, guida un movimento dove la dirigenza è a maggioranza femminile».
Critico nei confronti delle liberazioni della giornalista italiana Cecilia Sala e dell’ingegnere iraniano Abedini. «Ora la polizia europea ha paura di arrestare i terroristi perché appena ne arresta uno, in Iran viene fatto lo stesso. Si continua a pagare a causa della politica di accondiscendenza. E poi – continua – lo scambio non è alla pari. Abedini era un pezzo grosso, un cervello di informazioni. Grazie a lui e i suoi droni sono morti molti soldati americani e anche ucraini».
Ma resta fiducioso sul cambio di presidenza americana in chiave repubblicana: «Ci auguriamo che Trump continui ciò che ha fatto nel primo mandato (uccisione di Soleimani e il ritiro dell’accordo sul nucleare). Non si tratta solo del popolo iraniano ma della sicurezza del mondo». Fortemente critico sui democratici tanto da definire Obama «una macchia nera per il mio popolo».

Dopo 45 anni in Italia si sente integrato ma non fino in fondo. «Mia moglie vent’anni fa ha chiesto la cittadinanza italiana ma le è stata negata perché è un’attivista politica antiregime iraniano. Il TAR ci ha detto che non possono esprimersi per motivi di sicurezza nazionale». Una questione che sintetizza così: «I miei figli hanno la cittadinanza italiana. Quando li accompagno a votare per le elezioni sono felice per loro ma è triste pensare che ho lavorato tutta la vita per la democrazia e non ho mai potuto votare, neanche in un Paese democratico». Questo non lo scoraggio e quando gli si chiede la prima cosa che vorrebbe per la sua nazione risponde: «Un Iran dove le mamme non hanno paura che i figli non tornino a casa».