Esclusiva

Marzo 27 2025.
 
Ultimo aggiornamento: Marzo 28 2025
Teatro Patologico, il palco dove la disabilità diventa arte

Dario D’Ambrosi, direttore della compagnia, porta in scena talento e inclusione smontando gli stereotipi grazie alla teatroterapia

«Come dico ai miei ragazzi, noi dobbiamo dimostrare che la disabilità è una forza, un’energia positiva, un elemento in più che gli altri non hanno. La recitazione insegna ad alzare la testa e ad affrontare la vita di tutti i giorni». Dario D’Ambrosi, regista e attore, è il direttore del Teatro Patologico, la compagnia formata da persone con disabilità fisiche e mentali. Più di quarant’anni fa ha dato vita a questo progetto, che con una forza dirompente lavora per smontare i pregiudizi della società tramite la teatroterapia. 

«La mia storia è una piccola fiction. Vengo dalla periferia milanese, dove ho passato un’infanzia difficile. Poi, un momento di grande luce: venni preso a giocare nelle giovanili del Milan». La grande passione di Dario era il calcio, il teatro lo considerava «come la cosa più noiosa che possa esistere». Ma la vita e i gravi problemi familiari lo hanno portato altrove. «Dallo stadio di San Siro sono finito dentro il manicomio Paolo Pini di Milano. Un’esperienza incredibile, che mi ha fatto conoscere il mondo della malattia mentale. Ho pensato di scrivere spettacoli per raccontare le storie degli ultimi che ho incontrato lì dentro, e così è nato il Teatro Patologico». 

Nella sede di via Cassia a Roma, le prove sono tutti i giorni dalle 16 alle 19. I ragazzi arrivano nella compagnia tramite le Asl o per il passaparola tra genitori. «Quando vengono per la prima volta, tante famiglie sono disperate. Dopo qualche settimana, le vedi tornare sorridenti, mi dicono “abbiamo ricominciato a dormire sereni”. Non ha prezzo, è lì che capisci il potere della teatroterapia» racconta Dario. I miglioramenti sono evidenti, sia a livello cerebrale che emotivo. «Sono miracoli, non benefici. Vedere i risultati è il contributo più bello che posso avere». 

Una storia che Dario ha nel cuore è quella di Paolone: «Un ragazzo molto alto con due grandi occhi azzurri. Arrivato a teatro guardava solo il pavimento, i genitori mi hanno confessato che non aveva mai pianto. Adesso è il primo a ricevere le persone con un sorriso strepitoso, ma soprattutto ha conosciuto la bellezza del dispiacere, del dolore, la grandezza delle sfumature delle emozioni». 

Uno dei membri della compagnia è Paolo V., «un attore dalle capacità straordinarie» come dice Dario. «Per me far parte del Teatro Patologico significa aver trovato uno scopo, una direzione, un senso alla mia vita. Ho acquisito maggiore sicurezza, non solo a teatro, ma anche nella vita di tutti i giorni. Più in generale, far parte di questa realtà mi ha reso consapevole di non essere solo nelle mie sofferenze» racconta Paolo sulla sua esperienza. 

Il metodo usato da Dario è studiato anche all’estero come modello di inclusione, che guarda alle persone con disabilità senza l’ombra del pietismo. «Io sono molto severo con i ragazzi. Li tratto come veri attori. Ci sono delle regole da rispettare, io voglio gli applausi del pubblico perché hanno assistito a un bellissimo spettacolo, non perché hanno davanti una persona disabile». 

Dalle sale cinematografiche con “Io sono un po’ matto e tu?”, il film che nel 2024 ha visto recitare insieme la compagnia del Patologico con attori e attrici italiani di primo piano (Raoul Bova, Claudia Gerini e Claudio Santamaria sono solo alcuni dei nomi), al Teatro dell’Opera di Roma. Dai palchi internazionali, come il Cafè La MaMa di Ellen Stewart a New York, fino alla kermesse più attesa d’Italia: Sanremo 2025. 

«Sono stati dieci minuti e quarantadue secondi in cui la vita si è fermata. Se mi chiedi cos’è successo all’Ariston non te lo so dire, devo rivedere il filmato. Una sensazione talmente forte, violenta da non riuscire a gestire l’emozione». Durante la terza serata del Festival, Dario e la compagnia hanno conquistato il cuore di migliaia di spettatori sulle note di “La vita è musica”. L’esibizione è stata una vera e propria bomba, con una risonanza spaventosa a distanza di quasi due mesi. 

«Ogni giorno ci arrivano tra le cento e le duecento e-mail da mamme e papà che ci chiedono di far entrare i loro figli nella compagnia. È faticoso perché spesso si sentono abbandonati, hanno provato di tutto e non sanno più cosa fare per vedere felici i loro ragazzi. La nostra presenza a Sanremo è stata una luce di speranza» prosegue Dario, ancora incredulo dalla meraviglia. Inclusione, superamento degli stereotipi, amicizia, valori: tutto per mezzo di un’arte, il teatro. 

Leggi anche: «Il mio velo, la mia scelta». Tasnim si racconta su Instagram