Fra il mare e le macerie, a Gaza, a partire dal 25 marzo 2025 si muovono cortei rumorosi. Gli slogan si alternano ai pianti e alle esplosioni per i continui bombardamenti israeliani. «È una buona cosa che la gente, nonostante la catastrofe umanitaria, si stia mobilitando contro la guerra, ma anche contro Hamas», dice Hamza Howidy, nato a Gaza City nel 1997 e ora in Germania, che prova a far sentire la voce degli abitanti della Striscia che si oppongono all’islamismo.
«Si può odiare Hamas e anche il modo in cui agisce Israele. Non sono posizioni che si contraddicono», aggiunge. «I gazawi hanno ragioni sufficienti per farlo, quasi tutte le famiglie hanno subito perdite a causa dell’esercito israeliano».
Hamza è fuggito dalla Striscia passando dall’Egitto, dopo aver pagato una grossa somma. Da lì, con un aereo si sposta in Turchia, per poi arrivare in Grecia in barca. Adesso vive in Germania, ma nelle ultime settimane è passato anche dall’Italia e dalla Luiss, invitato dall’editorialista del Corriere della Sera Maurizio Caprara.
«La vita a Gaza non è oscura come si pensa»
Quando Hamza parla della sua terra, lasciata per la prima volta proprio nel 2023, sorride sempre. «La vita a Gaza non era così oscura come molti immaginano e avevamo i nostri modi di divertirci. Passavamo molto tempo al mare e al conservatorio Edward Said. I ricordi più belli sono legati all’atmosfera del Ramadan o alle feste di matrimonio».
Un senso di disillusione, però, lo investe a dieci anni, nel 2007, durante il conflitto armato per il controllo della Striscia fra Hamas e Fatah da cui uscì vincitrice la fazione islamista, che da quel momento governa in maniera assoluta. «Ho capito quanto la nostra situazione fosse complessa. Perché non vedevo palestinesi contro israeliani, ma palestinesi che si uccidevano tra di loro per qualcosa che non capivo».
Un’altra svolta per Hamza arriva nel 2015. «Siccome non ci sono molte opzioni lì, mi sono iscritto alla facoltà d’ingegneria dell’Università di Hamas», come chiama l’Università Islamica di Gaza City. «Per certi versi è un ateneo come ce ne sono tanti. Ma, non importa la facoltà, si studia la Sharia». Particolare era anche il programma di studi di ingegneria. «Nei primi due anni imparavamo come costruire razzi o droni, ma non era quello che mi interessava. Così sono passato a Scienze dell’Amministrazione».
Per Hamza, così come per tantissimi suoi coetanei in ogni parte del mondo, gli anni universitari sono quelli del risveglio di una coscienza politica e della voglia di cambiare le cose. Oltre a essere «gli anni più belli della mia vita», racconta.
Hamza partecipa alle proteste che si erano sollevate già prima della guerra attuale. «Nel 2019 mi sono unito a un movimento il cui slogan era “Vogliamo vivere” e aveva solo due richieste. Migliori condizioni economiche e libere elezioni». Durante una di queste manifestazioni è fra i circa tremila arrestati. Viene tenuto in carcere per tre settimane, costantemente spiato e interrogato con metodi violenti. L’accusa è prima quella di lavorare per gli israeliani, poi per l’Autorità Nazionale Palestinese, che governa la Cisgiordania.
«Dopo qualche anno siamo tornati a protestare. Proprio nel 2023, prima della guerra», continua Hamza. «Anche questa volta sono stato arrestato, ed è stato molto peggio della prima. Così ho pensato che forse stavo “battendo un cavallo morto” e che era meglio andarsene».
Il sogno di una Gaza diversa
In questi ultimi mesi Hamza lavora come un amplificatore della società civile di Gaza, diffondendo video che arrivano dalla Striscia e provando a raccontare la realtà oltre i numeri dei morti. «Per settimane, se non mesi, molte persone sono state uccise, oltre che dagli israeliani, anche da Hamas. Ho postato alcuni video di queste persone torturate per strada perché accusate di lavorare per Israele o di rubare dagli aiuti umanitari».
«Per me la priorità è fermare la guerra e preferisco che la Striscia di Gaza venga ricostruita di nuovo». Non secondo il progetto del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e del suo video creato con l’intelligenza artificiale: «Quando l’ho visto all’inizio ero in preda al panico. Ma qualche settimana dopo mi è stato chiaro quello che ha cercato di fare: far sì che altre persone risolvano questo problema, senza aspettare che gli Stati Uniti usino la bacchetta magica. Si riferiva, credo, ai Paesi arabi, in particolare all’Egitto e alla Giordania», indicati da Trump come la destinazione per un milione e mezzo di profughi. «Li ha minacciati in modo educato e ha funzionato. Dopo questo video, l’Egitto è intervenuto sulla Gaza post-bellica e ha detto: “Non vogliamo Hamas al potere”».
Per Hamza la speranza di rivedere il mare della sua città si intreccia con quella di uno Stato palestinese democratico. «Penso che l’azione di attori chiave come i paesi arabi, l’Egitto in primis, e dell’Unione Europea possa aiutare», conclude, «ma la necessità ora è di far tornare gli aiuti umanitari – da cinquanta giorni ormai Israele blocca l’accesso – e di fermare questa guerra».