Fra le macerie di Gaza, dalla fine marzo 2025, si muovono cortei di persone stremate dalla fame. Manifestano non solo contro la guerra ma anche per opporsi a chi dal 2007 controlla la Striscia. «Non sono andato, ma sono proteste giuste. Non vogliamo Hamas e non vogliamo le bombe», spiega Majed Al-Shorbaji, rifugiato in Italia dal 2019, ora bloccato a Jabalya con la moglie incinta Lasim.
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Non tutti i gazawi, però, sono convinti della genuinità delle proteste. C’è anche chi, come il cooperante Sami Abu Omar, pensa che siano i servizi segreti israeliani a guidarle, «con l’obiettivo di cacciare dalla Striscia i suoi abitanti», racconta da Khan Younis: «Le proteste sono arrivate anche qui».
Due visioni opposte che raccontano di una popolazione allo stremo. Ma con l’anima politica che non si spegne. «Alcune persone sono scese in strada perché sono stanche di chi governa. Ma penso che le manifestazioni non siano solo anti-Hamas», spiega Xavier Abu Eid, politologo palestinese ed ex consulente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp): «Anche alcuni sostenitori di Hamas hanno partecipato alle manifestazioni, si tratta di un movimento molto più grande. È la nostra gente e dovremmo ascoltarla. Credo, infatti, che le accuse ai manifestanti di essere spie israeliane siano addirittura vergognose». Il focus delle proteste, per Abu Eid, resta la catastrofe umanitaria e la necessità che la guerra finisca. «Le persone vogliono porre fine al genocidio. Persone la cui condizione di civili è stata negata dall’occupazione israeliana».
Cinque giorni dopo il massacro del 7 ottobre 2023, il presidente israeliano Isaac Herzog aveva dichiarato che «l’intera nazione» dei gazawi era «responsabile» dell’attacco. E che la retorica dei “civili ignari e non coinvolti” non era vera. «Avrebbero potuto resistere», aveva aggiunto, «avrebbero potuto combattere il regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza».

Proteste a Gaza contro Hamas: crisi politica oltre quella umanitaria
L’Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, “movimento islamico di resistenza”, da cui l’acronimo Hamas, nasce ufficialmente nel 1987, ma governa la Striscia dal 2007. Dopo aver vinto le elezioni dell’Autorità Nazionale Palestinese, nel gennaio 2006, vince anche il conflitto armato che scoppia subito dopo contro Fatah.
«Ma a Gaza ci sono una pluralità di opzioni politiche da tempo. Anche negli anni Cinquanta, ad esempio, c’erano il movimento nazionalista arabo, i Fratelli Musulmani, i comunisti», aggiunge Xavier Abu Eid.
Cinquantamila morti, però, pesano anche sulla politica interna. «È un dato di fatto che Hamas sia debole. Ha perso molta popolarità», sottolinea il politologo prima di chiarire, però che trovare un’alternativa è molto difficile. «C’è una generale crisi dell’intero sistema politico. La maggior parte dei palestinesi non si sente rappresentata da nessun movimento e questo in tutti i territori e nella diaspora».
L’indebolimento riguarda tutta l’Autorità Nazionale Palestinese. L’Operazione “Muro di Ferro” dell’IDF in Cisgiordania, partita il 21 gennaio, due giorni dopo la firma della tregua nella Striscia, ha colpito in particolare i campi profughi di Jenin, Tulkarem e Tubas, in cui sono tanti i sostenitori delle formazioni islamiche. La mancanza di risposta ha reso ancora più fragile la posizione del presidente Abu Mazen. «Non riesce neanche a far entrare del cibo», commenta, affamato, Majed da Jabalya.
«Abbiamo bisogno di elezioni», commenta Abu Eid. «C’è bisogno di un dialogo politico nazionale, di ritrovare unità o almeno un governo di consenso. Ma non si può pensare alle elezioni nazionali nel bel mezzo di un genocidio», e quando più di un milione di persone teme la deportazione.
La lotta quotidiana per la terra in Cisgiordania
Non solo a Gaza. La resistenza del popolo palestinese va avanti da decenni anche oltre la oltre la kill zone di un chilometro istituita dall’Israeli Defence Force (Idf) all’interno del perimetro della Striscia. Con minacce, aggressioni e falsi acquisti gli insediamenti dei coloni israeliani hanno reso la Cisgiordania uno scolapasta geografico e le azioni quotidiane degli agricoltori palestinesi, come raccogliere i frutti del proprio lavoro nei campi, impossibili. «Di solito il sistema è quello di stabilire un piccolo avamposto, da cui si muovono per pascolare o per molestare gli arabi della zona», racconta Hagit Ofran, attivista di Peace Now, associazione israeliana che si batte per la pacificazione dei rapporti nella regione.
«Lo Stato sostiene questi atti di violenza e i suoi agenti talvolta vi partecipano direttamente», aggiunge Shai Parnes, rappresentante di B’tselem, Ong che raccoglie, racconta e combatte le violazioni dei diritti umani nei territori occupati.

“Un vero leader porta la pace. Un tiranno codardo sacrifica il suo popolo in guerra”, striscione di Peace Now a una manifestazione di protesta
Il governo presieduto da Benyamin Netanyahu continua a sostenere l’attività delle organizzazioni che creano insediamenti nei territori palestinesi per poi annetterli allo Stato ebraico. «Da quando c’è questo governo ne ha inaugurati quasi cento», aggiunge Ofran, «i ministri della destra vedono i coloni come l’unità d’élite che protegge Israele, dato che considerano ogni angolo della Zona C (la maggior parte del territorio extraurbano della West Bank, ndr) come territorio israeliano e ogni palestinese che le attraversa come un’invasore».
Come spiega Parnes «la violenza dei coloni è una forma di politica governativa, sostenuta attivamente dalle autorità ufficiali dello Stato. Che così si appropria di terre utilizzando metodi ufficiali sanciti da consulenti legali e giudici», ma contrari alla legge internazionale.
Dal 7 ottobre 2023, secondo i dati raccolti da Peace Now, il numero di comunità palestinesi cacciate dalla propria terra è aumentato di dieci volte rispetto all’anno e mezzo precedente. «C’è anche un cambiamento nel modo in cui l’esercito è coinvolto in questa situazione», aggiunge Ofran. «Ha reclutato coloni per proteggere gli insediamenti perché si temevano altri attacchi. Indossano l’uniforme militare ma agiscono alla stessa maniera».
Eppure l’attivista di Peace Now ha ancora speranza: «Perché credo che la maggioranza degli israeliani sosterrà qualsiasi accordo di pace che verrà loro presentato, anche se comprende lo sgombero degli insediamenti in Cisgiordania». Se ci sarà ancora qualcuno a proporlo.