«Offriamo educazione di livello mondiale ai bambini dimenticati dal mondo»: così si apre la pagina web dell’organizzazione no profit che aiuta i bambini rifugiati a trovare un futuro, “Still I Rise”. Lo scopo della Ong è aiutare i più piccoli a trovare un futuro, partendo dall’educazione. Tante le scuole che stanno aprendo in diverse parti del mondo, Kenya, Messico, Grecia (già operativa). Tra queste si inserisce il progetto in Turchia con la prima scuola internazionale per minori rifugiati.
A Gaziantep, a 60 km dal confine turco-siriano, sorge la struttura che ospiterà i bambini dai 10 ai 17 anni, garantendo loro un’educazione e un futuro con un curriculum scolastico che copre medie e superiori. «Stiamo lavorando in due step» spiega Michele Senici, coordinatore del progetto «il primo è quello di aprire un centro giovanile che dovrebbe arrivare fino a settembre e funzionerà come Mazí in Grecia (altro centro giovanile aperto nel 2018, ndr). Dovrebbe aprire nelle prossime settimane, burocrazia turca permettendo». Il secondo step, invece, riguarda la scuola internazionale, che coinvolge anche il Ministero dell’educazione internazionale della Turchia, come afferma Michele Senici: «qui si ha molto a cuore l’educazione del proprio popolo, tanto che è difficile che lascino delegare a altri questo compito, ma con l’escamotage della scuola internazionale siamo arrivati a un compromesso: potremo educare solo bambine e bambini non turchi».
A chi, quindi, si rivolgerà questo istituto? «Principalmente a minori siriani. In Turchia ci sono 3,6 milioni di rifugiati siriani, che decidono di fermarsi qui ed è a loro che ci rivolgeremo». Il modello, però, a cui aspira “Still I Rise” in tutti i paesi in cui sta costruendo le scuole è quello di avere un 70% di rifugiati e un 30% di popolazione svantaggiata.
La struttura, che da settembre dovrebbe essere operativa, si trova tra il centro di Gaziantep, dove vivono i rifugiati, e la cintura di grandi palazzi che delimitano questo rettangolo, che è la zona più agiata: «qui il rapporto periferia-centro è diverso: nella zona centrale ci sono case mal finite, intorno invece, nella zona periferica, ci sono grattaceli che circondano la povertà. Tra queste due realtà ci sono i quartieri residenziali in cui apriremo la scuola».
I bambini siriani che faranno parte della scuola, così come tutti i rifugiati che si trovano in Turchia, arrivano dopo aver intrapreso un viaggio rischioso: «il confine con la Siria è chiuso e al momento l’immigrazione è clandestina. Il percorso che fanno è pericoloso soprattutto perché ci sono i trafficanti e nelle zone al confine c’è la guerriglia». Una volta arrivati in Turchia, chi ce la fa, va nei campi profughi in cui possono decidere di fermarsi, oppure «si spostano» come dice Michele Senici «in città turche a sud-est, diventate zone rosse per l’immigrazione, tanto che gli uffici non gestiscono più le pratiche ad esempio per gli stranieri, come noi che vogliamo chiedere il permesso di soggiorno».
Il coordinatore del progetto ha anche spiegato che, dopo gli ultimi scontri sulla frontiera, la situazione a Gaziantep è tranquilla: «Essendo a 60 km dal confine e essendo la frontiera turco siriana chiusa, la percezione che si ha è quella di una quotidianità qualunque, ma allo stesso tempo è estraniante. È stato teso il momento quando a Idlib sono morti 34 militari turchi e ci sono stati scontri tra turchi e siriani in chiave vendicativa». Diversa, invece, è la situazione sul confine turco-siriano: «Abbiamo saputo che ci sono dei gruppi online in cui i rifugiati si stanno organizzando per spostarsi il più velocemente possibile verso il confine in modo da arrivare in Europa». Michele Senici, che insieme a “Still I Rise” sta aiutando tanti bambini a vedere e costruire un futuro, sostiene che ci deve essere anche un impegno da parte dell’Europa: non usando paesi cuscinetto e affrontando la questione della redistribuzione. «Nelle isole greche ci sono minori non accompagnati di cui l’Europa se ne frega e questo è inaccettabile nel 2020, se siamo nell’Occidente che ci vantiamo di essere. C’è bisogno di un’educazione dei cittadini all’accoglienza, come istituzione non come politica».