«Il punto è: la Cina ora rappresenta un enorme storia internazionale » twitta Gerry Shih, corrispondente del The Washington Post da Pechino, che presto sarà costretto a lasciare il paese. «Può limitare gli accessi per ostacolare le critiche e forse un giorno potrà persino fermare la stampa critica in tutto il mondo. Ma quel giorno non è ancora arrivato».
Nell’escalation di tensione che separa le due superpotenze mondiali, la Cina, martedì scorso, ha annunciato che espellerà i giornalisti del The New York Times, The Wall Street Journal e del The Washington Post (testate censurate nel paese) i cui visti-stampa scadranno entro 2020. Sono 13, secondo l’FCCC – il Foreign Correspondents’ Club of China – i giornalisti che dovranno informare il Ministero degli Esteri e consegnare la press card entro 10 giorni dal 17 marzo. Le misure sono valide anche per le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao. In più, i tre quotidiani, il Time Magazine e l’agenzia Voice of America vengono considerati come organi governativi statunitensi e quindi dovranno comunicare informazioni dettagliate al governo cinese, sul personale, la situazione finanziaria e le proprietà immobiliari.
Le disposizioni, come scrive in una nota, Geng Shuang, portavoce del Ministero degli Esteri, sono una risposta inevitabile alla «mentalità da guerra fredda» con cui sta operando il governo americano che, due settimane prima, aveva limitato a cento il numero massimo dei dipendenti dei maggiori media cinesi presenti negli Stati Uniti – l’agenzia di stampa Xinhua, China Radio, la televisione Cgtn e i quotidiani China Daily e People’s Daily – e di fatto costretto sessanta lavoratori a lasciare il paese.
Il Foreign Correspondents’ Club of Hong Kong – FCCHK è allarmato dalle dichiarazioni del Ministero degli Esteri cinese, ancor più perché ai giornalisti espulsi non sarà permesso lavorare neppure ad Hong Kong (e Macao), territorio in cui fino a questo momento, secondo la Basic Law – la costituzione de facto che regolamenta la regione ad amministrazione speciale della Repubblica Popolare Cinese – i visti di lavoro erano stati concessi senza interferenze da parte del governo cinese. «Se le cose cambiassero ora, questo rappresenterebbe una grave erosione del principio costituzionale Una Cina due sistemi » scrive FCCHK. Ma le misure prese sono corrette e ragionevoli, secondo il Ministero degli Esteri cinese, e trovano legittimazione nella Basic Law.
I giornalisti statunitensi colpiti sono quelli che hanno lavorato per raccontare che cosa effettivamente accade in Cina, spesso toccando argomenti – come l’esplosione del coronavirus nelle prime settimane o le detenzioni di massa dei musulmani nello Xinjiang- a cui il governo è sensibile, e sono la maggior parte, sottolinea l’FCCC. Perché, negli ultimi anni, la Cina sta rendendo sempre più difficoltosa la procedura per ottenere il visto, allungando i tempi, aumentando i costi dei processi e diminuendo la durata dei visti.
Lo scorso febbraio la Cina aveva già intimato di lasciare il territorio della Repubblica Popolare a tre giornalisti del The Wall Street Journal che avevano firmato l’articolo China is the real sick man of Asia in cui criticavano le misure prese dal governo per contenere il coronavirus. Anche quest’espulsione è avventa in seguito alla precedente decisione dell’amministrazione Trump di considerare i media cinesi sul suolo statunitense alla stregua di missioni straniere (e quindi i loro dipendenti non come giornalisti ma come funzionari del governo cinese).
Mike Pompeo, segretario di Stato americano, ha definito «spiacevole» l’annuncio con cui il Ministero degli Esteri cinese, martedì scorso, ha dato il via all’espulsione dei giornalisti del The New York Times, The Wall Street Journal e del The Washington Post. E ha sottolineato come le misure cinesi non corrispondano a quelle americane perché i media statunitensi colpiti in Cina – fatta eccezione per Voice of America – sono indipendenti e spesso critici nel confronti dello stesso governo americano mentre i cinque media cinesi negli Stati Uniti sono agenzie a servizio del governo.
Lo scontro Usa-Cina, che a dicembre sembrava essere arrivato ad un punto di svolta grazie alla firma dell’accordo commerciale tra il Presidente degli Stati Uniti d’America Trump ed il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, è si esteso all’informazione e ai media, colpendo di fatto la libertà di stampa.
Dean Baquet, direttore esecutivo del NY Times, definisce i recenti accadimenti irresponsabili, soprattutto in un momento in cui il mondo necessita di un flusso credibile di informazioni per sconfiggere la pandemia. «Cina e Stati Uniti devono risolvere velocemente il conflitto e lasciare fare ai giornalisti il fondamentale lavoro di informare il pubblico» commenta.