Il mondo intorno a noi sta cambiando, da qualche giorno a questa parte lo ha già fatto. Molte delle attività che consideravamo scontate, naturali, di fatto non lo sono più. Sono in pausa. Le lunghe cene con gli amici, i concerti, gli aperitivi. Ce ne rimangono però altre, e non meno degne. Ci sono i film, che in tempi come questi offrono oltre che sollievo, anche una possibilità di evasione. Ci si immerge, scena dopo scena, e pian piano possiamo perderci in boschi, praterie, piazze e città esotiche dove non siamo mai stati prima. Una volta ancora, in soccorso nei momenti di difficoltà viene la cultura. #pellicoledaquarantena
«Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora e vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio e furono loro date sette trombe» (Apocalisse 8, I)
I raggi del Sole del nord brillano sugli scogli e illuminano l’orizzonte. Le onde del mar Baltico si infrangono sui ciottoli della spiaggia. Per il cavaliere Antonius Block e per il suo scudiero Jons è la fine di un cammino lungo dieci anni, di un viaggio che una croce templare incisa sull’armatura e un’infinita stanchezza non potrebbero, da sole, raccontare. Ciò che i due uomini hanno visto e vissuto in Terra Santa è impresso nelle loro menti, sconvolte dal dubbio. La morte, indifferente al tempo e ai tormenti dell’uomo, appare in quel momento, ospite inatteso. Per Antonius è giunta l’ora. Ma il suo viaggio è appena cominciato.
Si apre con questa immagine il Settimo sigillo, capolavoro datato 1957 del regista svedese Ingmar Bergman, considerato a ragione una pietra miliare del cinema internazionale.
Tratto da una pièce teatrale dello stesso Bergman intitolata Pittura su legno, il film ricorda per sceneggiatura e fotografia un’opera di teatro.
Il film è un’allegoria del rapporto fra l’uomo moderno e la fede. Esso infatti cerca di rappresentare, attraverso la settima arte, il tema ancestrale dell’umana ricerca di Dio.
Nella Svezia medievale flagellata dalla peste, in un’alternanza di scene tragiche, comiche e grottesche, paura e superstizione rappresentano l’onnipresenza della morte: nei riti religiosi, nelle pitture, nella bocca degli uomini, essa ritorna sempre a soffocare ogni speranza di gioia. Non a molti è concesso di procrastinare la sua venuta, ma Antonius Block (interpretato da un giovane Max Von Sydow) tornato in patria insieme al suo scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand) dopo 10 anni, sa come irretirla: una partita a scacchi per guadagnare il tempo necessario a dare un senso alla propria vita. Il tempo per trovare Dio.
La prima tappa del viaggio allude metaforicamente a questa ricerca. I due uomini si fermano in una chiesetta di campagna dove incontrano un pittore intento ad affrescare le pareti con immagini apocalittiche.
Antonius inizia a confessare i propri pensieri e dubbi a un uomo incappucciato:
«Perché io devo avere fede nella fede degli altri. […] Perché non posso uccidere Dio dentro di me? Perché egli continua a vivere in questo modo doloroso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparmelo dal cuore?
Io voglio la conoscenza, non la fede, non supposizioni: la conoscenza. Voglio che Dio tenda la sua mano verso di me, si riveli e mi parli. Lo chiamo nel buio, ma sembra come se non ci fosse nessuno. Allora la vita è un atroce orrore. Nessuno può vivere in vista della morte, sapendo che tutto è il nulla».
Il dialogo porta alla luce l’incapacità del protagonista di credere in un Dio enigmatico e oscuro, celato dal mistero, che sembra aver abbandonato l’umanità al proprio tragico destino ma allo stesso tempo evidenzia l’ineluttabile bisogno di credere in qualcosa di diverso dal buio di un nulla senza fine.
La grata del confessionale che separa il cavaliere dal suo interlocutore è un escamotage geniale attraverso il quale Bergman ricrea fisicamente la gabbia interiore e il senso di angoscia che perseguitano Block.
Questi sentimenti saranno ulteriormente acuiti dalla rivelazione che l’uomo incappucciato altri non è che la Morte beffarda (Bengt Ekerot).
Alla disperata ricerca di una fede autentica e personale del protagonista, fa da contraltare l’ateismo dello scudiero Jons, un uomo ancora fedele ai valori cavallereschi dell’onore e della solidarietà verso i più deboli ma apparentemente rassegnato a un cinico nichilismo. Egli, raccontando il suo passato al pittore, non riesce a trovare un senso nell’immolare la propria vita a Dio.
Il senso di questa disperata ricerca si troverà nelle cose più semplici: l’incontro, in un paesello martoriato dalla peste, con una famiglia di saltimbanchi: Jof (Nils Poppe), Mia (Bibi Andersson, una delle prime muse del regista) e il loro figlio Mikael.
Nell’amore sincero e spensierato della famiglia, capace di vivere allegramente anche nelle condizioni più misere, il cavaliere percepirà quel Dio silenzioso e sfuggente che tanto cercava. E una volta trovato, sarà pronto e deciso a sacrificarsi per esso.
«Lo ricorderò questo momento» – dice Antonius, finalmente sereno, disteso sull’erba, accompagnato dal suono della lira – «il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri volti su cui discende la sera. Cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente. E sarà per me un conforto. Qualcosa in cui credere».
Il film di Bergman, lungi dall’essere un semplice prodotto di intrattenimento, è una riflessione sulla situazione dell’uomo moderno nell’epoca contemporanea. La calamità della peste rappresenta l’Apocalisse davanti alla quale gli uomini si discostano dalla vita terrena e cercano risposte provenienti dal Cielo. Gli atteggiamenti possibili di fronte ad una morte incombente possono essere tanti quanti sono gli uomini sulla Terra.
«L’ora è venuta!» esclama con gioia un’umile serva al seguito di Antonius. C’è persino chi accoglie con speranza la prospettiva di un aldilà.