Piazza San Pietro è tornata deserta, nel giorno della Passione di Gesù di questo venerdì santo. Per la prima volta dal 1964 la Via Crucis non si è tenuta al Colosseo, ma nella piazza più importante del Vaticano. Papa Francesco, scortato solamente dal maestro cerimoniere Guido Marini è rimasto sul sagrato antistante la Basilica di San Pietro ascoltando e meditando le riflessioni raccolte dal cappellano del carcere “Due Palazzi” di Padova Don Marco Pozza.
In questo periodo drammatico per l’Italia, Bergoglio ha scelto di far ascoltare al mondo la voce dei detenuti e delle persone che vivono ogni giorno l’universo carcerario. Un detenuto condannato all’ergastolo, i genitori di una vittima di omicidio stradale, la figlia di un condannato all’ergastolo, un magistrato, un agente di polizia penitenziaria, una catechista volontaria in carcere, diversi altri detenuti e un sacerdote condannato per abusi e poi giudicato innocente: questi i protagonisti anonimi delle riflessioni spirituali che hanno accompagnato la preghiera deserta del Papa in una Piazza San Pietro spettrale, quasi surreale.
«Il Papa riesce a essere di grandissima forza comunicativa anche quando la comunicazione è messa in difficoltà a causa del contesto», dice a Zeta Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano, storico quotidiano ufficiale della Santa Sede. «La sensazione che ho avuto ascoltando le meditazioni sul carcere è stata di trovarmi nel posto giusto al momento giusto: senza andare necessariamente in una dimensione trascendente di fede, la Via Crucis di Gesù di Nazareth è il racconto di un errore giudiziario, la vicenda di un uomo ingiustamente condannato a morte. Non esisteva niente di più opportuno che far riflettere sulla vicenda di Gesù crocifisso a persone che hanno vissuto e vivono l’esperienza della giustizia, della condanna e della pena», ha aggiunto Monda.
«Come catechista asciugo tante lacrime, lasciandole scorrere: non si possono arginare le piene di cuori straziati. Tante volte incontro uomini disperati che, nel buio della prigione, cercano un perché al male che sembra loro infinito. Queste lacrime hanno il sapore della sconfitta e della solitudine, del rimorso e della mancata comprensione. Spesso immagino Gesù in carcere al posto mio: come asciugherebbe quelle lacrime? Come placherebbe l’angoscia di questi uomini che non trovano una via d’uscita a ciò che sono diventati cedendo al male?», ha scritto l’educatrice volontaria in carcere per il Papa, raccontando della sua esperienza quotidiana di accompagnamento spirituale ai detenuti.
«Avete mai pensato che di tutte le vittime delle azioni di mio padre io sono stata la prima? Da ventotto anni sto scontando la pena di crescere senza padre. Per tutti questi anni ho vissuto di rabbia, inquietudine, malinconia: la sua mancanza è sempre più pesante da sopportare. Ho attraversato l’Italia da Sud a Nord per stargli accanto: conosco le città non per i loro monumenti ma per le carceri che ho visitato. Mi sembra di essere come Telemaco quando va alla ricerca di suo padre Ulisse: il mio è un Giro d’Italia di carceri e di affetti», ha scritto invece la figlia di un condannato all’ergastolo, raccontando la propria vita di tutti i giorni paragonandola a una Via crucis senza sconti. «Il giorno che mi sono sposata, sognavo di avere mio padre accanto a me: anche allora mi ha pensata da centinaia di chilometri di distanza. “È la vita!”, mi ripeto per farmi coraggio. È vero: ci sono genitori che, per amore, imparano ad aspettare che i figli maturino. A me, per amore, capita di aspettare il ritorno di papà. Per quelli come noi la speranza è un obbligo», ha poi concluso.
«Una vera giustizia, però, è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce: si offre come guida nell’aiutarlo a rialzarsi, insegnandogli a cogliere quel bene che, nonostante il male compiuto, non si spegne mai completamente nel suo cuore», ha spiegato un magistrato nella meditazione della dodicesima stazione della Via crucis. Tra gli scritti più incisivi, però, è emerso anche quello di un sacerdote accusato di aver commesso abusi sessuali e assolto dopo dieci anni dalla condanna: «Il momento più buio è stato vedere il mio nome appeso fuori dall’aula del tribunale: in quell’attimo ho capito di essere un uomo costretto a dimostrare la sua innocenza, senza essere un colpevole. Sono rimasto appeso in croce per dieci anni: è stata la mia via crucis popolata di faldoni, sospetti, accuse, ingiurie. Ogni volta, nei tribunali, cercavo il Crocifisso appeso: lo fissavo mentre la legge investigava sulla mia storia. La vergogna, per un istante, mi ha condotto al pensiero che sarebbe stato meglio farla finita».
Con queste meditazioni per il venerdì santo del 2020 richieste personalmente dal Papa al cappellano carcerario Don Marco Pozza, Bergoglio ha voluto confermare la sua vicinanza umana e spirituale al mondo dei detenuti e a tutte le persone che soffrono a causa della giustizia, vittime e colpevoli con i loro parenti, senza distinzione. Da sempre il Papa ha voluto mantenere un contatto diretto con il mondo del carcere: fu Francesco stesso che nel 2015 in visita ai carcerati di Rebibbia a Roma disse: «ogni giorno mi chiedo perché voi siete qui e io sono lì, perché io non sono in carcere al posto vostro e non uno di voi al posto mio, a fare il papa».