«Le mafie spesso ignorano la stampa, ma attraverso alcuni giornali locali mandano messaggi e cercano di capire perché qualcuno parla di loro». Nel terzo webinar Roberto Saviano parla di mafie e informazione, dei sottili equilibri che si celano dietro alle querele e della coscienza che possiedono circa la propria visibilità mediatica. «Spesso gli avvocati dei criminali funzionano anche da uffici stampa. Ogni mattina gli fanno recapitare una rassegna in cui si fa menzione dei giornali in cui sono apparse notizie che li riguardano, anche quelli più piccoli e meno conosciuti».
«I clan interloquiscono anche con i giornalisti, i loro legali di solito lo fanno attraverso le diffide, il loro è più un approccio diretto, un tentativo per fasi. Uno immagina che si arriva subito al sangue, all’uso della forza, invece non è così. Le mafie tendono a non querelare mai, perché temono i riflettori puntati, quello che gli interessa è indagare sul perché chi scrive è interessato a loro».
«Da ragazzo per esempio scrissi alcuni articoli per il manifesto per cui a un certo punto me li trovai fisicamente sotto casa. Già pensavo volessero picchiarmi, invece mi volevano fare delle domande sul perché scrivessi, se nutrissi del rancore per non essere stato aiutato da loro, mi offrirono anche un lavoro in Germania. È l’atteggiamento classico di tirare dentro chi sfruculea, chi li osserva».
Alle mafie non interessa l‘articolo isolato che parla di loro, hanno paura però del troppo rumore e delle attenzioni costanti. Saviano si è occupato dei rapporti di Parmalat con la criminalità organizzata. «Mai nessuno aveva fatto così tanti soldi vendendo il latte. Parmalat riusciva a “distrarre” mentendo sulle vendite. I criminali imponevano il prodotto, non con le armi, ma presentandosi al supermarket in qualità di agenti: “Se prendete il latte Parmalat ve lo diamo al 3%”. L’uso della violenza c’è stato solo quando lo stabilimento di Foreste Molisane viene bruciato perché vendeva il latte a un euro in meno rispetto a Parmalat. Questo operato finisce sui giornali nazionali, nel 2004 su la Repubblica esce un articolo sullo scandalo Parmalat firmato da Eugenio Scalfari».
La visibilità mediatica provoca scompiglio all’interno dell’organizzazione criminale che si sente scoperta. Una paura tale che in un processo di altro argomento, il processo Spartacus, a carico del clan dei Casalesi per l’appalto di alcuni cantieri Tav, viene chiesto dall’avvocato della difesa che la presenza in aula di Saviano sia messa agli atti.
«Se ti riconoscono e tutti sanno chi sei allora la tua sola presenza è già un endorsement. Per un bravo cronista è molto sottile il confine tra il trovarsi in un luogo compromettente, come la festa di un boss, per cercare informazioni o finire per essere identificato come uno che propende per quella organizzazione mafiosa. Da ragazzo mi feci assumere come assistente fotografo solo per poter andare ai matrimoni, che nel caso delle organizzazioni criminali sono degli eventi sociali importantissimi. Molti decidono di non “bruciarsi”, come invece ho fatto io, alcuni anche famosi evitano di andare in televisione per non esporsi troppo e farsi conoscere».
Ci sono state molte vittime di cui si parla poco, tutti giornalisti uccisi per aver toccato gli interessi sbagliati, si va da Peppino Impastato, a Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Mauro De Mauro, Mario Francese, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano, fino a Giancarlo Siani.
«La vicenda di Siani mi è molto cara. Era un giornalista giovanissimo, ammazzato a soli 26 anni. C’è quella triste foto in bianco e nero che lo vede riverso dentro la sua Mehari, così facilmente riconoscibile, a bordo della quale venne ucciso mentre stava parcheggiando sotto casa in via Romaniello al Vomero. Siani viene ammazzato e all’inizio nessuno sa di preciso perché. Iniziano a circolare versioni strane, contrastanti ma tutte accomunate dal torbido. Una volta sembra essere stato ucciso perché solito frequentare un bordello dove andava anche un famoso giudice, il quale sarebbe stato visto da Siani in atteggiamenti spinti insieme a tre ragazze. Un’altra storia lo vede protagonista di una tresca con la moglie del boss Valentino Gionta, e perciò ucciso per ripicca. Tutte motivazioni sempre poco credibili».
I suoi genitori moriranno senza sapere la vera ragione della morte, che verrà a galla solo dodici anni dopo. «Non era nemmeno stato iscritto nel registro delle vittime di camorra. Perché non c’erano state sentenze, mandanti e responsabili certi. Escono però due pentiti del clan Nuvoletta e confessano. “Noi abbiamo ucciso anche il giornalista”. Si scopre che il giovane Giancarlo fu ucciso per un articoletto, un fondo di poche battute, scritto nell’arsura di un’estate, da lui, un “abusivo”, come venivano chiamati in redazione i non ancora assunti quando facevano la gavetta, in sostituzione dell’inviato esperto di nera del Mattino, ma che si era rivelato, a conti fatti, una congettura azzeccata».
L’articolo risale al 10 giugno del 1985, ha come titolo “Camorra: gli equilibri del dopo Gionta” e sottolinea i possibili cambiamenti negli equilibri mafiosi dello scacchiere criminale locale qualora si fosse messo fine alla latitanza di Valentino Gionta, ex pescivendolo e boss di Torre Annunziata affiliato ai Nuvoletta. I suoi rivali erano la famiglia Bardellino, e tutti sapevano che prima o poi ci sarebbe stata una guerra. Per evitare l’escalation, Nuvoletta decise che si sarebbe dovuto eliminare proprio Gionta, creando così i presupposti per il cessate il fuoco e un’equa spartizione dell’area. Nuvoletta era anche consapevole però che l’uccisione di un alleato avrebbe macchiato il suo “onore”, meglio quindi farlo arrestare con una soffiata ai Carabinieri. Siani tramite una sua fonte nelle forze dell’ordine, venuto a conoscenza di questo particolare, decise di divulgarlo, cosa che gli costò la vita. Pur di non perdere credibilità di fronte ai propri alleati infatti, Lorenzo Nuvoletta, dopo avere ottenuto il nulla osta di Totò Riina, decise che Siani doveva morire.
«Ammazzarlo ha funzionato, all’epoca ebbe un effetto gigantesco, anche se la sua notizia non apparve in apertura dei quotidiani ma solo in spalla, giorni dopo, senza firma, perché i giornalisti del Mattino dissero di temere troppo per la loro incolumità. È stata una pietra pesantissima per un’intera generazione di giovani giornalisti».
Il discrimine è tra ammazzare un eroe o ammazzare un criminale, «se ammazzi il secondo non gliene fotte niente a nessuno, se muore un eroe o uno che è percepito come tale beh, per le mafie è un problema. Un martire attira un sacco di guai, da qui le profonde opere di discredito, il fango gettato a palate, il tentativo di sporcarne il ricordo e l’operato, tentando di dire che non era stato ucciso per aver scritto questo o quell’articolo, ma per certi suoi vizi, per certe sue imprudenze».