Dove non arriva lo sforzo del singolo, arriva la coralità. Come nell’azione congiunta della resistenza in cui l’azione del singolo spesso è vana ma quella congiunta porta a risultati incredibili, anche in un lungometraggio la forza dell’azione e della recitazione sta nel coro. Nelle scene del film dei fratelli Taviani, è la moltitudine delle persone che parla, non il singolo, ad emergere sono l’azione, i sentimenti, i desideri del gruppo di contadini.
La storia è una rilettura della strage del Duomo di San Miniato, paese natale dei due cineasti, in provincia di Pisa, avvenuta il 22 luglio del ’44, qui il nome della località muta, e diventa la fittizia “San Martino”. La Rai ha deciso di celebrare l’anniversario della Liberazione con la messa in onda in prima serata su Rai Movie di quello che fu un successo imparagonabile ai concorsi internazionali: vincitore nel 1982 di due premi speciali a Cannes, due Nastri d’Argento e ben sei David di Donatello. Salvo il già affermato Omero Antonutti che interpreta il fattore Galvano Galvani e Margarita Lozano che interpreta Concetta, tutti gli altri attori sono esordienti o improvvisati, come avveniva per molti dei lavori di Pier Paolo Pasolini.
Il linguaggio cinematografico della pellicola è molto scarno nella sua componente di “spettacolo”, è una studiata semplicità a permeare le varie scene. Alcuni degli abitanti di San Martino, mentre gli americani continuano nella loro avanzata, per non essere costretti dai nazisti e dai fascisti a radunarsi nel Duomo temendo una trappola, con alla testa l’anziano Galvano, decidono di andare incontro all’esercito liberatore. Molti di loro non ce la faranno mai, non raggiungeranno mai la libertà. Per chi invece ce l’ha fatta, molti giovanissimi, quella notte di San Lorenzo del 1944 sarà da ricordare anche nel futuro, una volta cresciuti.
Il continuo rimando al mito, all’epica, permea la rappresentazione, i versi dell’Iliade vengono decantati dal nonno durante il frugale “banchetto nuziale” dopo un matrimonio contadino celebrato in fretta e furia, banchetto che consiste nella mera divisione di una pagnotta col coltellaccio, già un lusso dato il momento. Fanno da scenario riferimenti più o meno espliciti a Virgilio, ai viaggi omerici, ma anche all’esodo biblico. Il fattore Galvano, saggio, che pensa con la testa sua, e si ribella all’ordine di tedeschi e fascisti di rinchiudersi nella cattedrale convincendo un gruppetto a seguirlo nella fuga per i campi finisce per essere considerato il patriarca che conduce il popolo alla terra promessa.
Il piccolo gruppo sotto la guida del fattore prosegue per la sua strada: in un campo alcune donne mietono il grano aiutate dai partigiani, e i fuggiaschi si uniscono a loro dando una mano nel lavoro, fino a quando non arriva un camion di camicie nere. È allora che succede il peggio. Il capolavoro dei Taviani è riuscire a rendere il modo in cui fascisti e partigiani siano spesso, nella realtà di un piccolo paese, imparentati tra loro, il più delle volte amici d’infanzia, chi passato da una parte chi da un’altra, un camerata è magari un ragazzetto che un contadino partigiano ha visto crescere, sono vicini di casa. Si chiamano per cognome anche mentre si sparano addosso.
Solo nel 2004 si scopre che la responsabilità del crollo della chiesa e della morte di molti civili rifugiati al suo interno non fu dovuta come si credeva all’inizio, e come il film postulava, ai granatieri tedeschi ma agli alleati, fu infatti una granata del battaglione d’artiglieria campale degli Stati Uniti a colpire accidentalmente il Duomo e a causare la morte di più di cinquanta persone. Questa rivelazione tardiva non sminuisce né altera il senso profondo di questa opera cinematografica, il cui nucleo è il dolore causato dai drammi della guerra, la morte la devastazione che porta con sé, gli errori commessi, le vite rovinate, al di là di ogni narrazione idealizzata o in chiave nazionalistica che spesso si fa degli scontri bellici.
L’intera vicenda è narrata da una donna che all’epoca era solo una bimba di sei anni a cui la vita sembrava ancora, nonostante tutto, quasi un gioco. La sovrapposizione tra reale e visione spesso avviene tramite il suo sguardo curioso e sognante o nelle allucinazioni di alcuni personaggi, elementi questi tutti riconducibili allo stile di Tonino Guerra, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura, facendo del “ricordo” un tema centrale della sua poetica. La forza de La notte di San Lorenzo è il riuscire a stare in continua oscillazione tra ricordi personali e memoria collettiva, poco importa quale versione dei fatti reali venga raccontata.