Su alcuni cartelli si legge “Get us back to work!” (“fateci tornare a lavoro”). Su altri, “Freedom is essential” (“la libertà è fondamentale”). Sono tutti vicini, quasi accalcati. Alcuni si abbracciano, altri si baciano. Di mascherine neanche l’ombra. Succede a Nashville, in Tennessee, dove centinaia di cittadini si sono riuniti per chiedere la riapertura del Paese. Molti hanno perso il lavoro e tra questi c’è chi non riesce ad arrivare a fine mese. Altri temono di essere i prossimi.
Sono più di 30 milioni i sussidi di disoccupazione richiesti finora. È ciò che oggi, 30 aprile, certifica il Dipartimento del Lavoro statunitense. Più di 3,8 milioni di cittadini hanno perso il lavoro nella settimana finita il 25 aprile. Un numero che porta alla mente la Grande depressione degli anni Trenta.
In Europa i capi di Stato e di governo pensano a una cassa integrazione comunitaria (programma Sure, Support to mitigate Unemployment Risks in Emergency). A preoccupare sono anche gli effetti della quarantena sul rapporto debito pubblico/PIL, uno dei parametri fondamentali della solidità finanziaria ed economica di uno Stato.
Cosa succede in America
Cinque settimane. Sono quelle bastate alla pandemia per spazzare via tutte le posizioni lavorative guadagnate dai cittadini americani in undici anni, dalla crisi finanziaria scaturita dal crollo del mercato immobiliare. Neanche i numeri, però, cambieranno il mondo del lavoro. Secondo Alberto Bisin, economista della New York University, «gli americani chiedono sussidi temporanei, non contratti a tempo indeterminato. A questo non pensa nessuno. Tutta la discussione politica, anche da sinistra, è “tassiamo i ricchi”, non “diamo lavoro a tempo indeterminato ai poveri”. Quindi ci potranno essere forme di ridistribuzione più accentuate, tasse più progressive, nuove forme di sostegno, ma poco altro. L’americano non è felice di non lavorare, ma pensa “sono stato mandato a casa, qualcuno mi aiuti” invece che “non mandatemi a casa”».
Le richieste di sussidi non sembrano destinate a diminuire. Il pacchetto di stimoli monetari da 2.300 miliardi di dollari (2116 miliardi di euro) varato dalla banca centrale statunitense, la Federal Reserve, unito ai programmi del Tesoro, ha ampliato il numero di persone che possono beneficiare degli aiuti. Tra questi, i lavoratori passati dal full-time al part-time. Per la precisione, più di 1,6 milioni da febbraio a marzo secondo l’agenzia di rating Moody’s Analytics. Far fronte alla mole di richieste è difficile. Per questo, molti che hanno perso il lavoro non risultano ancora licenziati. In Florida, solo il 14,2% delle oltre 668.000 domande presentate dal 15 marzo è stato valutato. In Ohio, per evitare una congestione, i richiedenti devono presentarsi un giorno specifico della settimana, in ordine alfabetico per cognome. A Washington DC il sito web si arresta in modo anomalo o impiega ore a valutare la domanda.
Il mondo del lavoro negli Stati Uniti è più flessibile che in Europa. Ciò significa che il numero di disoccupati cresce e decresce più rapidamente. Proprio perché è molto più facile licenziare e assumere. Secondo Samy Chaar, capo economista della banca svizzera Lombard Odier, «mercati del lavoro molto flessibili significano anche che i tassi di disoccupazione saranno particolarmente drammatici». La risposta monetaria e fiscale negli Usa è stata senza precedenti, ma «la portata della recessione dipenderà dall’efficacia della risposta in termini di sanità pubblica e dal tempo necessario affinché gli incentivi economici arrivino nelle mani dei cittadini».
I problemi strutturali degli Usa
L’economia statunitense si basa per due terzi sulle spese dei consumatori. Spese che, secondo il Dipartimento del Commercio, si sono ridotte del 7,6%. Così come gli investimenti delle imprese, vittime di un taglio dell’8,6%. Le vendite al dettaglio a marzo hanno toccato quota -8,7%, un crollo senza precedenti. Hotel e ristoranti, secondo gli analisti della Fed, avrebbero perso quasi un terzo dei propri dipendenti dal 15 febbraio. «Resta da vedere quanti saranno assunti grazie al programma SBA Paycheck Protection» avverte Deutsche Bank. Si tratta del prestito a fondo perduto progettato per incentivare le piccole aziende a mantenere i propri dipendenti sul libro paga per otto settimane.
Non è solo questo a preoccupare: anche colossi come Volkswagen, Airbus, Samsung e Boeing hanno dichiarato scarsi guadagni nel primo trimestre. «The worst is yet to come» (“Il peggio deve ancora venire”) si legge sulle principali testate americane. «Un ristorante di New York, quando potrà riaprire, riassumerà i dipendenti. Il problema grosso riguarda le grandi imprese con una catena produttiva complessa. Pensiamo a una ditta che produce impianti elettrici e che importa alcuni pezzi dalla Cina e altri dal Vietnam per poi venderli in Italia. Può succedere che la Cina esca dal lockdown e l’Italia no. Ecco perché la riapertura di queste imprese può essere complessa e lenta. Mentre il ristorante che non ha più clienti chiude dopo tre giorni, queste aziende hanno più possibilità di accesso ai capitali (quindi più facilità a rimanere aperte) e possono pagare per un po’ i dipendenti pur senza impiegarli. Ma questo non può durare anni. Per capire la gravità della situazione bisogna vedere quanto si stanno spezzando le catene di produzione» commenta Bisin.
Intanto, dall’Ufficio congressuale di bilancio statunitense non arrivano buone notizie. Per il prossimo anno è prevista una percentuale di disoccupati superiore al 10%. Quel 3,5% registrato prima dello scoppio della pandemia sembrerebbe un ricordo. «Non è escluso che, pur partendo da un tasso di occupazione più alto, gli Stati Uniti possano sperimentare effetti peggiori dell’Europa» sostiene Gianmarco Ottaviano, economista e professore all’Università Bocconi. E già a marzo gli analisti della banca americana JP Morgan parlavano di almeno 25 milioni di posti di lavoro in meno. Oltre a ciò, il Dipartimento del Commercio avverte che il Prodotto interno lordo (Pil) si è contratto del 4,8% nel primo trimestre del 2020 su base annua. La peggiore flessione trimestrale dalla crisi finanziaria del 2008.
E l’Europa?
Non sono solo gli Stati Uniti a soffrire gli effetti della pandemia. L’economia mondiale entrerà in recessione, contraendosi del 3% nel 2020. A dirlo è il Fondo monetario internazionale, che prevede un arretramento di 6,3 punti percentuali rispetto a gennaio. Tra i Paesi avanzati, gli Usa segneranno -5,9%. Peggio della Grande Depressione. Ed è confermata la contrazione, -4,8%, del Pil dell’area euro nel primo trimestre dell’anno. Non andrà meglio all’America Latina e ai Caraibi, tornati indietro di oltre un decennio nella loro lotta alla disuguaglianza. Un alto funzionario delle Nazioni Unite fa sapere che quest’anno quasi ventinove milioni di persone in più finiranno in povertà.
Mentre il lockdown viene esteso a tutti i Paesi dell’Eurozona, crescono i timori che le misure restrittive possano causare danni economici irreparabili. Secondo gli analisti di Goldman Sachs, tra le principali banche d’affari al mondo, il rapporto debito pubblico/Pil è destinato a salire bruscamente in Europa, soprattutto in Italia (163% del Pil), Spagna (118%) Francia (114%). Il gigante bancario newyorkese Morgan Stanley aggiunge che l’economia dell’Eurozona potrebbe contrarsi dell’11%. Le perdite ammonterebbero a quasi 2mila miliardi di euro. Anche gli Stati Uniti assisteranno a un aumento del debito. «A differenza del nostro, però, il loro è considerato sicuro, non produrrà mai un default, gli spread [la misura del rendimento dei titoli di Stato che un Paese utilizza per finanziarsi, ndr] finora non si sono mai alzati» commenta Alberto Alesina, economista e professore all’Università di Harvard.
Il caso SURE
La Confederazione europea dei sindacati (Ces) parla di 40 milioni di nuovi disoccupati nel Vecchio Continente, che potrebbero diventare 60 milioni prima della fine dell’emergenza. Il 23 aprile i Capi di Stato e di governo dell’Unione europea hanno approvato il pacchetto da 540 miliardi di euro destinato al rilancio dell’economia. Di questi, 100 miliardi sotto forma di prestiti serviranno a finanziare il programma SURE, aiutando imprese e lavoratori. Un meccanismo, questo, assente negli Stati Uniti.
«La cassa integrazione – spiega Bisin – è uno strumento in cui i dipendenti vengono pagati affinché mantengano il posto di lavoro. Negli Usa questo non c’è, si licenzia e poi si riassume. Al massimo vengono dati dei soldi a chi ha perso il lavoro». I recenti interventi della Federal Reserve vanno però in un’altra direzione. «Hanno avuto una forma molto più simile a quella della cassa integrazione proprio perché a preoccupare è la rottura delle catene produttive. L’obiettivo è permettere soprattutto alle grosse imprese di non perdere i lavoratori, in modo che quando riapriranno possano farlo rapidamente. Se l’organigramma di una ditta viene distrutto perché questa deve chiudere, quando riapre deve ricostruirsi da zero e questo può essere difficile. È una cosa che la banca centrale ha capito rapidamente. Per questo ha messo in piedi dei meccanismi di finanziamento alle imprese condizionati al fatto che mantengano i lavoratori. Una specie di cassa integrazione, appunto».
Uno strumento che, secondo l’economista, in Europa ha fatto spesso danni: in periodi di crisi endogene, ha permesso a imprese non produttive di rimanere aperte, quando sarebbe stato più razionale finanziare i lavoratori affinché si spostassero in aziende più efficienti. «Adesso è un sistema su cui puntare perché queste ditte non è che non siano produttive, sono state chiuse per una ragione esogena (la pandemia appunto) quindi è giusto fare in modo che le strutture restino aperte e che la catena produttiva non venga distrutta». Così anche l’ex dirigente generale del Ministero del Tesoro Francesco Giavazzi: «Per impedire al lavoratore di far crollare il consumo bisogna dargli certezze e questo si traduce non solo nell’assicurargli un reddito ma anche nel garantirgli il posto di lavoro».
Ci sono voluti tre anni per uscire dalla Grande Recessione, seguita alla crisi finanziaria del 2008. Più di dieci per emergere dalla Grande Depressione degli anni Trenta. Adesso gli Stati Uniti fronteggiano il peggior declino della loro economia negli ultimi decenni. «Più aiuti federali a sostegno di famiglie e attività critiche» ripetono gli economisti. Dall’altra parte dell’oceano, intanto, i cittadini europei aspettano una risposta concertata alla pandemia. «The worst is yet to come». Tutto sta a farsi trovare preparati. E c’è di più. Vale a dire, l’elemento della distruzione di forza-lavoro, che andrà a impattare anche sulle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Donald Trump e i suoi contendenti per la Casa Bianca sono avvisati.