Secondo il report dell’INAIL, Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, durante la pandemia sono stati 37.352 i contagiati da Covid19 nel settore sanitario, i più colpiti sono gli infermieri. In prima linea contro il virus, storie di donne e uomini che hanno deciso di dedicare la propria vita agli altri #giornatainternazionaledegliinfermieri
Nel Dipartimento Malattie Infettive e Tropicali del Policlinico Umberto I di Roma ci sono quattro reparti, tre per gli adulti, uno per i bambini. In quello dove si trova Monica, un’infermiera professionale che lavora lì da undici anni, fino allo scoppio dell’emergenza coronavirus c’era solo un altro collega per turno che la aiutava a coprire i 16 posti letto. «Abbiamo liberato due di questi reparti da un giorno all’altro. Un pomeriggio, quando ero di turno, c’erano i nostri pazienti con malattie infettive; sono tornata il giorno dopo a fare la notte e non c’erano più i pazienti di prima ma solo quelli con sospetto covid» – ovvero coloro ai quali era stato fatto il tampone ed erano in attesa di risposta. «Era il 6 marzo». Da quando il primo tampone è risultato positivo, il reparto di Monica ospita solo pazienti affetti da SARS-CoV-2.
Con l’emergenza coronavirus i ritmi e la pressione psicologica del lavoro degli infermieri sono cambiati e le manifestazioni di gratitudine nei loro confronti, da parte di istituzioni e società civile, si sono moltiplicate. Le foto degli infermieri stremati che portano sul volto i segni dei dispositivi di protezione indossati per sei o dieci ore di fila o l’immagine dell’infermiera dell’Ospedale di Cremona che, ancora avvolta in camice, guanti e mascherina, appoggia la testa su una scrivania per riposare, hanno fatto il giro del mondo.
Anche il quotidiano tedesco Bild, in un articolo del 2 aprile dedicato al Bel Paese, il più colpito dal coronavirus all’epoca, riporta una grande immagine di Martina Papponetti, infermiera venticinquenne di Bergamo, che mostra sul volto i segni della maschera di protezione. Abbiamo intervistato Monica in occasione della Giornata internazionale dell’infermiere, che si celebra il 12 maggio, data di nascita di Florence Nightingale, fondatrice delle scienze infermieristiche moderne. Monica ci ha raccontato, in un’intervista telefonica, come è cambiato il suo lavoro a partire da quel 6 marzo.
«Prima di allora il lavoro era faticoso ma accettabile» racconta. Prima di arrivare a malattie infettive Monica aveva lavorato per nove anni nella terapia semi-intensiva dell’Umberto I, «ma quello che ho passato in questi due mesi mi ricordo di non averlo mai provato». Quello che è cambiato con il covid non è tanto la fatica fisica del suo lavoro quanto quella mentale: «Tornavo a casa e piangevo. Ti senti impotente, non sai cosa fare per questi pazienti che sembrano stare bene e poi da un momento all’altro si aggravano e devono essere portati in rianimazione».
«Mi ricordo di un signore che aiutai a fare una telefonata alla figlia. Quando tornai il giorno dopo e chiesi di lui mi risposero: “è morto stanotte”. A ripensarci mi vengono ancora i brividi».
I pazienti affetti da covid sono in isolamento all’interno del reparto. Non possono ricevere visite dai familiari e questa solitudine può protrarsi per mesi. L’unico contatto umano di queste persone sono gli infermieri e i medici che li visitano e somministrano le cure, avvolti in tute, coperti da maschere e occhiali.
Alcuni pazienti, pur di dare un volto a chi li sta aiutando in un momento di estrema difficoltà e paura, dicono di riconoscere gli infermieri dagli occhi: l’unica cosa intellegibile sotto tutti quei strati di plastica, l’unica fonte di calore umano nell’ambiente asettico del reparto di Malattie Infettive. «Ci dicevano: “Siete stati per un mese la nostra famiglia”», racconta Monica.
Gli infermieri sono l’unico filo che collega il paziente con la sua famiglia. Essi si fanno portatori di messaggi e arrivano con i loro occhi e orecchie fin dove i familiari non possono arrivare. Monica racconta di come i parenti spesso chiamino lei per avere informazioni: «Ho provato a chiamarlo ma come mai non mi risponde?».
Sono poi i medici a dover dare, alle volte, la notizia più triste a quei familiari separati così a lungo dai propri cari, tanto da non potergli dare nemmeno l’ultimo saluto. Si muore così nel reparto Malattie Infettive: soli, circondati da occhi coperti da visiere di plastica.
I decessi, ci racconta Monica, sono stati sette finora nel suo reparto ma ci sono state una trentina di guarigioni complete in cui i pazienti sono stati dimessi. Alcuni di essi al momento di lasciare il reparto piangono: sottoposti alle ingiurie della malattia e allo stress emotivo dell’isolamento, faticano a lasciare le persone con cui hanno condiviso la solitudine e verso cui si sentono riconoscenti. «Abbiate cura di voi, grazie di tutto», dicono a medici e infermieri. «Abbiamo ricevuto dei grandi gesti di affetto, questo sì» dice dolcemente Monica al telefono.
Nel Dipartimento dell’Umberto I, non c’è finora un trattamento farmacologico standard per i pazienti covid. Attualmente in reparto sono state applicate tutte le terapie sperimentali: dagli antiretrovirali, al Tocilizumab- un anticorpo monoclonale usato per l’artrite reumatoide che, in alcuni pazienti, si è rivelato efficace nelle fasi avanzate della polmonite- fino ad arrivare all’ozono-terapia. Ad ora tuttavia non è chiaro quale terapia abbia funzionato dato che i pazienti guariti hanno risposto in modo diverso alle diverse cure. La situazione per fortuna è in miglioramento ci dice Monica: «Da dieci giorni a questa parte abbiamo pazienti, soprattutto anziani delle RSA, che non hanno bisogno di supporti respiratori importanti e sono dunque meno gravi rispetto a coloro che arrivavano solo un mese fa».
In questo periodo gli infermieri vengono chiamati in vari modi: “angeli”, “soldati in trincea” o in prima linea…“eroi”. A fronte di questa enfasi retorica la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI) pone una serie di problemi concreti per “non dimenticarsi degli infermieri” una volta che l’emergenza coronavirus sarà rientrata: dal prendere coscienza del problema del numero di contagi fra gli operatori sanitari, alla questione della carenza del personale infermieristico in Italia fino ad arrivare alla questione delle retribuzioni che nel nostro Paese non sono in linea con il livello di professionalità e con il valore del percorso di studio e della professione che essi svolgono.
«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», recita una frase dell’opera teatrale Vita di Galileo di Brecht. Questo perché l’appellativo “eroe” scarica automaticamente il peso di darsi da fare su questi famigerati esseri superiori. Riconoscere invece che l’eroe è solo una persona normale che svolge con passione e dedizione il proprio lavoro senza tirarsi indietro nel momento del bisogno, non equivale a sminuirlo, significa solo riconoscere che gli eroi camminano in mezzo a noi. Sono spesso le persone che diamo per scontate, a cui affidiamo i nostri cari e i nostri malati. Il vero modo di sminuire un infermiere che lotta in prima linea contro il covid non è negandogli l’appellativo di eroe, ma non riconoscendogli, a emergenza passata, l’attenzione e la rilevanza che la sua professione merita. Santificare le persone nel momento del bisogno è la cosa più facile del mondo; riconoscerne l’importanza in “tempi normali” è invece la vera sfida.
«Vi sentite degli eroi?», chiediamo.
«Io non mi sento un’eroina. In questi due mesi non ho fatto niente di più rispetto a quanto già facessi prima del 6 marzo. Sì il lavoro è cambiato, soprattutto dal punto di vista dello stress mentale. Ora abbiamo anche un supporto psicologico proprio perché ci rendiamo conto che la situazione è pesante. Ma se siamo eroi oggi, lo eravamo anche lo scorso anno».
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