«Un enciclopedico conoscitore della Hollywood degli anni d’oro, Gerald». «Orgogliosa madre single di tre bambini, Louvenia». «Era in pace sulla sua Harley, Thomas». Il New York Times ha dedicato la prima pagina del 24 maggio 2020 ai 100.000 morti di Coronavirus negli Stati Uniti, cercando di dare un volto a questi numeri scrivendo per ciascuno di essi: nome, età, città di provenienza e una riga, o poche parole, che li rappresentassero. «L’America sta velocemente avvicinandosi ad una cupa pietra miliare» si legge nella versione online del giornale, «ogni figura qui rappresenta una delle 100.000 vite perse finora» e su uno sfondo grigio come la pietra si srotola un cimitero di piccole figure che potrebbero formare una vasta nebulosa informe se non fosse per gli affettuosi cartigli che ne restituiscono invece un volto umano.
«Siamo arrivati alla soglia dei 100.000 morti che è una soglia simbolica perché all’inizio della crisi il presidente Trump aveva detto che se la sua amministrazione fosse riuscita a contenere le vittime sotto i 100.000 significava che avrebbe fatto un buon lavoro». Così Paolo Mastrolilli, inviato a New York per La Stampa, commenta il triste traguardo a cui si sta avvicinando l’America.
La pandemia negli Stati Uniti, come nel resto del mondo salvo rare eccezioni, è stata affrontata in maniera del tutto inadeguata tra ritardi nel prendere atto della gravità della situazione da parte dell’amministrazione e le frequenti affermazioni del presidente volte a minimizzare il problema, da: «Il Coronavirus si indebolirà quando arriveremo ad aprile con il clima più caldo» a «È destinato a scomparire. Un giorno scomparirà come per miracolo», fino alle mirabolanti affermazioni anti-scientifiche sul fatto che il Coronavirus andrà via senza un vaccino o che per combatterlo si potrebbe pensare di fare iniezioni di disinfettante o lampade ai raggi ultravioletti.
«Quello che è accaduto negli Stati Uniti secondo me è più o meno quello che è accaduto nel resto d’Europa ovvero si è continuato a pensare fino a quando non è stato troppo tardi: “qui non può succedere”. Anche perché in America c’è questa tendenza a pensare a sé stessi sempre come l’“eccezione americana”. Quando ero in America mi dicevano “ma no, noi siamo più ricchi, abbiamo ospedali migliori, da noi non può succedere”» racconta a Zeta l’inviata di Repubblica a New York Anna Lombardi.
Della stessa opinione anche Alessandro Portelli, accademico, critico musicale e anglista: «C’è la convinzione a priori dell’eccezionalità degli Stati Uniti per cui il problema non può avere degli addentellati locali, sicuramente è qualcosa che viene dall’estero, quindi si tratta del “virus cinese”. Come quando a un certo punto ci fu un parassita dell’uva che era invece la “mosca messicana”, tutte le minacce vengono sempre da fuori».
Il ritardo nei test, la sanità privata e l’approccio ideologico al virus
La questione dei temponi è quella che ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una delle maggiori criticità nella lotta al virus sia da parte del governo federale che dei singoli Stati.
«Trump fino a metà marzo ha continuato a dire: non c’è bisogno di chiudere, va tutto bene, abbiamo pochissimo morti, da noi è tutto sotto controllo. La verità è che andava tutto bene perché non si facevano i tamponi» dice l’inviata di Repubblica.
Il Washington Post ha fatto una puntuale ricostruzione di cosa è andato storto negli Stati Uniti riguardo i test per il Coronavirus. Il 10 febbraio il presidente Trump affermava: «Siamo in gran forma nel nostro Paese. Abbiamo 11 malati e questi 11 stanno migliorando». A tale ottimismo, tuttavia, faceva da contraltare il fatto che, al 12 febbraio, i test per il Coronavirus erano poco diffusi in America (solo 12 laboratori erano qualificati a somministrare i test) e oltretutto quelli forniti dai Centers for Disease Control and Prevention ad alcuni laboratori davano risultati falsati. Quindi c’erano pochi positivi perché non si stavano facendo i test.
Gli Stati Uniti infatti decisero di sviluppare i propri test a gennaio, rifiutando quelli offerti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, motivando la scelta dicendo: «È la maniera in cui facciamo normalmente le cose. Molti Paesi non hanno le nostre capacità e perciò devono fare affidamento sull’OMS per avere i test. Noi non dobbiamo fare ciò negli Stati Uniti».
Tuttavia i test sviluppati dai CDC a gennaio e distribuiti a febbraio ai laboratori autorizzati a somministrarli alla popolazione davano dei risultati non chiari.
«Le prime migliaia di questi tamponi davano risultati falsati. Quindi sembrava che il contagio fosse molto meno potente e virulento e questo ha fatto perdere tantissimo tempo» dice la Lombardi.
Al 16 febbraio inoltre, sempre secondo quanto riportato dal Washington Post, sembra fossero state testate in America solo 800 persone.
Man mano la situazione è andata migliorando e si è passati dai 150.000 test al giorno somministrati ad aprile ai 320/380.000 delle scorse settimane, secondo quanto riportato dal Covid Tracking Project.
Fare i test è un requisito essenziale per capire l’entità del contagio in ogni Stato, il problema tuttavia, secondo quanto riportato da Vox, è che i numeri dei test effettuati dai singoli Stati nelle scorse settimane potrebbero essere stati gonfiati (dolosamente o meno non è chiaro). Essi avrebbero infatti sommato i risultati di due tipi di test diversi: i tamponi, che si effettuano sulle mucose per capire se la malattia è in corso al momento del test, e i sierologici, attraverso i quali è possibile individuare gli anticorpi prodotti dal sistema immunitario che è entrato in contatto con il virus.
Tra gli Stati che, al 21 maggio, sembrerebbe stiano utilizzando questa strategia per mostrare risultati più lusinghieri sul numero di test effettuati ci sarebbero Georgia, Pennsylvania, Texas e Vermont mentre Virginia e Maine avrebbero iniziato a farlo e poi smesso.
Un altro elemento che ha contribuito al diffondersi dell’epidemia è stata la lentezza di reazione del sistema sanitario americano e delle compagnie di assicurazione private che hanno risposto lentamente alla necessità di trattare invece l’epidemia con un’emergenza straordinaria.
«Si è perso molto tempo perché le assicurazioni non hanno deciso da subito di coprire i costi della malattia. La gente all’inizio non era incentivata né a farsi il test né ad andare in ospedale. Ciò ha mostrato la debolezza estrema di un sistema sanitario privato dove la gente ha paura di andarsi a fare anche un’analisi perché non sa quanto gli costa», dice l’inviata di Repubblica.
Da marzo in America i tamponi sono gratuiti per tutti grazie a un provvedimento passato dal Congresso chiamato Families First Coronavirus Response Act (sebbene in realtà il tampone sia gratuito solo se si rivela positivo al virus, in caso contrario bisogna pagarlo) e molte assicurazioni sanitarie ora coprono molti dei costi per il Coronavirus. Tuttavia non bisogna dimenticare che in America 30 milioni di persone non possono permettersi l’assicurazione sanitaria e, gli alti costi delle cure, secondo un sondaggio Gallup, inibiscono ancora molti americani a rivolgersi a medici e ospedali anche quando hanno sintomi riconducibili al Covid-19 come febbre e tosse secca.
Il sondaggio rivela inoltre come le preoccupazioni nel farsi curare riconducibili ai costi siano correlate alle condizioni socio-economiche delle famiglie: gli ispanici e le persone di colore hanno meno probabilità di avere l’assicurazione sanitaria rispetto ai bianchi non-ispanici, così come le famiglie a basso reddito (con meno di 40.000$ di reddito annuo) sono quelle più preoccupate dai costi delle cure.
Il quadro è inasprito dal fatto che, in questo periodo, quasi 40 milioni di persone hanno chiesto il sussidio di disoccupazione negli USA.
«Senza dimenticare che comunque c’è un andamento altrettanto grave in un Paese come la Svezia» fa eco Portelli, «io direi che ha a che fare anche con l’assenza di un sistema sanitario di base; per cui c’è questa concentrazione della spesa sanitaria verso gli ospedali più avanzati e specializzati trascurando completamente il livello casa per casa e quartiere per quartiere. A ciò va aggiunto il tipo di relazioni industriali che ci sono negli Stati Uniti, la forte precarietà del lavoro per cui molte persone normalmente vanno a lavorare anche quando sono ammalate perché non possono permettersi un giorno di assenza».
Mastrolilli sottolinea un ulteriore aspetto, ovvero il ritardo del riconoscimento del problema da parte di Trump: «Dal momento in cui c’è stato il primo caso acclarato negli Stati Uniti al momento in cui il presidente Trump ha riconosciuto che esisteva un problema e ha dichiarato l’emergenza nazionale, sono passati 54 giorni. Nell’arco di questi 54 giorni si sarebbero potute fare molte cose. Secondo uno studio della Columbia University se le misure di mitigazione all’interno, ovvero social distancing e la chiusura di diverse attività, fossero iniziate con una settimana di anticipo si sarebbero potute salvare 36.000 persone».
Negli Stati Uniti inoltre la popolazione e la classe politica è spaccata a metà secondo linee partitiche quando si parla dell’approccio al virus, connotando in questo modo il Coronavirus di sfumature ideologiche.
«Gli Stati democratici hanno agito seguendo i consigli dei medici, gli Stati repubblicani no. Questo perché un cavallo di battaglia di Trump è l’economia ed è anche il motivo per cui l’America sta riaprendo un po’ troppo presto. Ovviamente l’interesse repubblicano è riequilibrare l’economia il più presto possibile perché se c’è una cosa che potrebbe far perdere Trump a novembre è una situazione economica disastrosa come sembrerebbe il caso ora che siamo arrivati a 40 milioni di disoccupati» dice la giornalista di Repubblica.
Per Mastrolilli questa è anche una delle possibili interpretazioni del provvedimento del blocco dei voli dalla Cina, preso a gennaio dall’amministrazione Trump: «Il blocco dei voli dalla Cina era un provvedimento che aveva un impatto economico limitato e per altro era compatibile con la linea politica dell’amministrazione Trump, “America first”. Invece prendere le misure di mitigazione interna significava paralizzare l’economia- come in realtà è successo- frenare la crescita e provocare un’enorme disoccupazione, cosa che il presidente voleva evitare il più possibile in un anno elettorale.
Trump aveva basato gran parte della sua campagna per la rielezione sul fatto che aveva creato una forte economia nel Paese, paralizzarla per prevenire il contagio era un rischio che voleva evitare».
«Il problema fondamentale che si è creato è che c’è stata proprio una spaccatura politica su questo fra Stati repubblicani e democratici. I sostenitori del presidente e i governatori degli Stati repubblicani, oltre a resistere alle misure di mitigazione perché ritenevano che il virus non fosse diffuso nei loro stati- come invece adesso sta avvenendo- l’hanno fatto per ragioni politiche: per tenere aperta l’economia e dimostrare che non era stata l’amministrazione federale guidata da un repubblicano a sbagliare ma i singoli governatori degli stati democratici dove il virus si era sviluppato di più, cioè New York, New Jersey e lo Stato di Washington. Quindi ne hanno fatto una questione politica dicendo che il problema era stata la cattiva gestione dell’emergenza da parte dei democratici negli Stati più colpiti, non gli errori commessi dall’amministrazione repubblicana».
Le proteste anti-lockdown
«Questo è un Paese libero. Vai in Cina se vuoi il comunismo» urla una donna sporgendosi dal finestrino di un SUV a un serafico infermiere fermo a braccia incrociate sulle strisce pedonali. La donna ha in mano un cartello con su scritto “Land Free”, tutt’intorno a lei bandiere americane penzolano dai finestrini delle auto e la vernice metallizzata di SUV e Pick-up scintilla sotto il cielo terso di una giornata d’aprile.
A Denver, Colorado, così come in molti altri Stati americani, una minoranza rumorosa di manifestanti anti-lockdown ha intasato con SUV e Pick-up le strade della città in segno di protesta contro le misure di contenimento del virus imposte dal governatore democratico dello Stato. La manifestazione, denominata “Operation Lockdown”, ricorda molto quella svoltasi il 15 aprile in Michigan, chiamata “Operation Grindlock”, dove allo stesso modo i manifestanti crearono ingorghi nelle strade intorno al Congresso dello Stato, a Lensing, in segno di protesta contro le perdite economiche e di posti di lavoro causate dalla risposta della governatrice democratica Gretchen Whitmer al diffondersi del virus.
A fronte del prolungamento del lockdown da parte della governatrice, una seconda protesta, organizzata dal gruppo conservatore Michigan United for Liberty, ha avuto luogo il 30 aprile e i manifestanti, molti dei quali armati, sono riusciti a entrare nel Parlamento al grido di “Let us in”, fateci entrare.
«I movimenti di destra rappresentano il rifiuto assoluto della presenza dello Stato nella vita quotidiana quindi in questo momento in cui il ruolo dello Stato diventa così forte, succedono delle cose che se avvenissero in qualsiasi altra parte del mondo rimarremmo sconvolti, come un assalto armato al Parlamento del Michigan» dice Portelli.
Embed from Getty Images«Trump sta facendo un doppio gioco» dice l’inviata di Repubblica «da una parte ha stabilito delle linee guida per la riapertura, dall’altra ha appoggiato evidentemente tutti quei movimenti anti-lockdown che sono di estrema destra. Trump ha sostenuto le proteste twittando anche “liberate il Michigan”. I movimenti inoltre non erano spontanei e nati dal basso ma a finanziarli è stata la famiglia della Ministra dell’istruzione, Betsy DeVos, appartenente a una storica famiglia dell’ultra-destra repubblicana. Questi movimenti pescano anche tra i partecipanti ai tea-party e nell’America cospirazionista, ovvero in quel segmento della società americana che tende a spiegare qualsiasi avvenimento attraverso trame e complotti».