“Bisogna saper soffrire per vincere”. Una frase di Filippo Turati che divenne il motto di Angelina Merlin. L’insegnante, partigiana, Madre Costituente e parlamentare della nuova Repubblica Italiana, ha lottato tutta la vita per portare avanti le sue battaglie, senza mai arrendersi e senza mai scendere a patti. Non lo fece quando le fu chiesto di giurare fedeltà al fascismo, il suo rifiuto le costò il posto da insegnante di francese. Non era la prima volta che le veniva chiesto di approcciarsi al partito di Mussolini, ma lei sentiva di appartenere ad altri ideali. Molti anni dopo, quando il giornalista Enzo Biagi le chiese cosa fosse per lei il socialismo, la sua risposta fu: “Giustizia Sociale”.
Fu proprio questa necessità di giustizia che la portò a militare per l’allora clandestino Partito Socialista; militanza che le costò cinque mesi di esilio.
Anche dal confino, la giovane donna, dall’aspetto minuto ma
dall’immenso carisma e forza d’animo, diede filo da torcere al regime fascista.
Fu spostata in più villaggi della Sardegna, perché, ovunque andava, si faceva
conoscere fra i locali, raccogliendo intorno a sé molti scontenti della dittatura.
Tornata a Milano nel 1930, continuò a militare per il Partito Socialista, e durante
la Resistenza partecipò a molte operazioni militari, in una di esse fu
arrestata dai soldati tedeschi, ma grazie ad una fuga spericolata riconquistò
la libertà e riprese il suo posto al fianco di altre donne partigiane nella
guerra al nazifascismo, fino alla Liberazione d’Italia.
Con la fine della guerra, la partigiana Merlin non smise di combattere.
Si presentò alle elezioni con il Psi, e divenne una delle 21 donne che
parteciparono all’Assemblea Costituente. Il suo contributo è ben visibile nell’articolo
3 della Costituzione: “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge (…)
senza distinzioni di sesso”. L’inciso sull’uguaglianza di genere fu
inizialmente liquidato dagli altri membri della costituente, ritenendolo un
fatto scontato, ma l’esponente socialista non demorse e quella locuzione fu
inserita.
Da allora la parlamentare Merlin non abbandonò mai la lotta per la parità dei
sessi.
Si schierò dalla parte delle ultime fra le ultime, le prostitute, e portò
avanti una battaglia politica che la tenne impegnata 10 lunghi anni.
L’obbiettivo era chiudere le case di tolleranza, e contro di lei si schierarono
liberali, missini, monarchici, socialdemocratici e persino qualche esponente
del suo partito. Erano in molti a ritenere che chiudere le case chiuse,
controllate dallo Stato, avrebbe portato la prostituzione a mettersi nelle mani
di sfruttatori privati, che, nell’ombra dell’illegalità, avrebbero peggiorato
le condizioni delle loro dipendenti. Lina Merlin però trovava intollerabile che
lo Stato guadagnasse per mezzo dello sfruttamento delle donne, e non si arrese.
Andò avanti fino a vincere anche questa battaglia. La legge
che serrò le porte delle case di tolleranza fu varata nel 1958, con 385 sì e 115
no, prese il suo nome.
«Questo Paese di viriloni che passano per gli uomini più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Inoltre, che giovani son questi che per avere una donna devono farsela servire su un vassoio come un fagiano?»
L’ultima lotta della Parlamentare della Repubblica la portò contro il suo partito, che nel 1961 decise di non ricandidarla. Merlin non perse neanche in quel caso il suo temperamento combattivo, strappò la sua tessera di partito, e nel suo discorso di commiato, disse che le idee sono importanti, ma camminano con i piedi degli uomini: “Sono stanca di fascisti rilegittimati, analfabeti politici e servitorelli dello stalinismo”. Erano le parole di una donna di 77 anni che aveva passato tutta la vita in prima fila a combattere e a soffrire per le sue battaglie, il più delle volte vincendole.
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