«Così ho perso tappa e Giro d’Italia». Al telefono l’accento veneto di Imerio Massignan è squillante. Ma la sua voce tradisce un velo di rammarico, quando ripercorre i momenti che gli hanno cambiato per sempre la vita.
È l’8 giugno del 1960. La Corsa Rosa affronta la penultima frazione, da Trento a Bormio, di 229 chilometri. Dall’inizio della competizione, i ciclisti ne hanno già percorsi 3.027. Quel giorno, però, l’altimetria fa venire i brividi. Tra le salite in programma ci sono il valico di Campo Carlo Magno, il Tonale e, per ultimo, il passo di Gavia, 2.621 metri sul livello del mare. È il battesimo delle due ruote per il gigante lombardo, che unisce l’alta Val Camonica, in provincia di Brescia, con la Valtellina, nel territorio di Sondrio. L’intuizione è stata del patron Vincenzo Torriani, il direttore di gara, che l’ha voluto con tutte le sue forze. Dal versante di Ponte di Legno la strada è “cattiva”: sono 17,8 chilometri, con una pendenza media del 7,8% e punte fino al 16%.
In pianura, prima della penultima asperità, scatta un giovane ventitreenne veneto. Classe 1937, veste la maglia della Legnano, la squadra che fu di Gino Bartali e Fausto Coppi, morto pochi mesi prima a causa della malaria. In classifica generale ha più di 7 minuti di ritardo dal leader, il francese Jacques Anquetil. Al Giro del ’59 si è piazzato quinto e, quando la strada sale, non ha paura di nessuno. Il nome, Imerio, deriva dal greco e vuol dire desiderio. Il suo è di colore rosa. Per raggiungerlo, non può più attendere. Se vuole ribaltare il Giro, deve partire da lontano.
«Sul Tonale ho ripreso tutti i fuggitivi di giornata, per ultimo il belga Rik Van Looy, all’epoca dominatore delle corse in linea. Abbiamo fatto la discesa insieme e ho mangiato un panino. Poi, sulle prime rampe del Gavia l’ho staccato e ho proseguito da solo».
Ed eccolo faccia a faccia con la montagna sconosciuta. Lungo i tornanti la gente lo incita. Ci sono anche i suoi compaesani di Valmarana, in provincia di Vicenza, che urlano e lo esaltano. Massignan non sente nulla e si alza sui pedali. Piove e fa freddo. Il Gavia lo sfida, lo illude che dietro ogni tornante ci sia la fine.
«Mano a mano che salivo aumentava la neve, con banchi enormi ai lati della carreggiata. Non era una strada asfaltata, ma una mulattiera stretta e piena di sassi. Alcuni corridori venivano spinti dal pubblico, altrimenti sarebbero ancora lì. Altri hanno messo piede a terra e non sono più riusciti a montare in sella. In queste tappe servono le gambe e io quel giorno le avevo. Pedalavo concentrato e sapevo che avrei potuto vincere il Giro».
In cima Imerio è solo, con un minuto e mezzo sul più immediato inseguitore, il fenomenale scalatore lussemburghese Charly Gaul, vincitore l’anno prima. Anquetil arranca, a cinque minuti, insieme all’altro rivale per la classifica generale, il toscano Gastone Nencini. Tra la folla vede il fratello. È sopra un muro innevato, alto cinque metri. Gli grida qualcosa, ma le parole si perdono nell’aria rarefatta. Non è il momento dei saluti, c’è solo il tempo di bere dalla borraccia, mettere i fogli di giornale sotto la maglietta e lanciarsi in picchiata verso Bormio. Meno di 30 chilometri lo dividono dall’arrivo. In discesa va forte, può ampliare il divario con i suoi avversari. Purtroppo gli dei del ciclismo hanno altri progetti quel giorno e gli voltano le spalle.
«Assaporavo l’impresa. Poi è iniziato il mio dramma sportivo. Prima di Santa Caterina Valfurva ho forato. Non avevo ruote, ma solo tubulari. Ho fatto tutto da solo, perché l’ammiraglia non mi seguiva. Aveva fuso il motore sulle rampe della salita. Dopo poche centinaia di metri ho bucato ancora e ho perso più di un minuto a bordo strada. A quel punto Gaul mi ha superato. Non sono ripartito con lo stesso impeto. Dopo quanto era successo, non riuscivo a disegnare le curve con naturalezza. Nonostante tutto, l’ho ripreso a Bormio, a due chilometri dal traguardo e, di rabbia, l’ho staccato. La classifica generale era ormai andata, ma volevo almeno il successo parziale. Purtroppo, a poche centinaia di metri dall’arrivo, una terza foratura mi ha costretto a cedere la vittoria al lussemburghese, che mi ha pure buttato giù dal podio finale. Ero incredulo, in lacrime».
La telefonata viene interrotta da una pausa. Come se l’emozione avesse preso il sopravvento. Poi la voce di Imerio torna incalzante. «Se la sera prima la Legnano avesse inviato parte dello staff a dormire in vetta, con ruote e bicicletta di scorta, ci sarei io nell’albo d’oro della corsa. Sono passati tanti anni, ma ancora oggi quel Giro lo sento mio. Invece la popolarità l’ho raggiunta per colpa di quella iellata montagna. Dopo sessant’anni tutti gli addetti ai lavori si ricordano di Massignan e del Gavia».
Il valico alpino non ha mai voluto un padrone. La Corsa Rosa sarebbe transitata altre nove volte in cima e alcune pagine sarebbero diventate leggendarie. Come nel 1988, quando una bufera di neve si abbatté sul percorso. Molti corridori, lungo la discesa verso Bormio, rischiarono l’assideramento. La classifica generale venne rivoluzionata e a beneficiarne furono l’olandese Erik Breukink, che vinse la tappa, e lo statunitense Andrew Hampsten, che vestì la maglia Rosa conservandola fino all’ultima frazione. Fu la prima vittoria di un corridore non europeo.
Imerio ha voglia di raccontare il suo ciclismo, che ha vissuto e amato con tutto sé stesso. «Le nostre biciclette montavano pochi rapporti e superavano i dodici chilogrammi. Per non parlare delle discese, dove ci lanciavamo con ciò che avevamo a disposizione, spesso senza guanti. Ora i corridori sono seguiti, ben equipaggiati. Tutto è studiato a tavolino. Altro che ricognizioni di tappa, un tempo andavamo alla cieca. Quando sul manubrio sfogliavo la cartina, conoscevo solo l’inizio e la lunghezza della salita. Sarebbero poi state le gambe a parlare».
L’ex scalatore ricorda le eroiche sfide a pedali tra uomo e montagna, espressione più alta di uno sport dal sapore antico. «Il Gavia è stata la più dura che abbia mai affrontato. Al secondo posto metto le Tre Cime di Lavaredo, poi il terribile Muro di Sormano, dove sono stato tra i pochi a non mettere piede a terra. Al Tour, invece, ricordo l’arrivo nel 1961 alla stazione sciistica di Superbagnères. Vinsi quella tappa. Secondo Guido Carlesi, terzo Gaul, quarto Anquetil, che avrebbe poi trionfato a Parigi. Capito che ordine d’arrivo?»
Imerio ha sfidato avversari straordinari. Su tutti Charly Gaul, ribattezzato “l’Angelo della Montagna”. A detta degli esperti il più forte scalatore della storia. «Altro che angelo, in salita era un demonio. L’ho battuto tre o quattro volte, ma in altre occasioni me le ha “suonate”. Quando scattava faceva il vuoto. Certo, quella famosa tappa avrebbe potuto lasciarmela. La meritavo per ciò che avevo fatto. Nel ciclismo esiste una specie di regolamento non scritto tra i corridori, un codice d’onore che avrebbe dovuto rispettare».
Senza dimenticare Federico Bahamontes, Miguel Poblet, Guido Carlesi, Arnaldo Pambianco e sua maestà Anquetil. «Jacques era il “signore della bicicletta”. Elegante in sella, educato in gruppo. Salutava tutti, nonostante fosse il più forte. Durante le prove a cronometro avevo spesso la sfortuna di partire prima di lui. Dopo 25 chilometri mi riprendeva sempre. Andava come un treno. Che classe, ragazzi».
E Nencini, soprannominato “il leone del Mugello”? Poche settimane più tardi avrebbe vinto in Francia. «Gastone, era determinato e coraggioso in gara. E poi in quel Tour aveva un gregario d’eccezione. Chi era? Che domande, Imerio Massignan»