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Esclusiva

Maggio 5 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Giugno 17 2020
Un nonno in giallo: la leggenda di Gino Bartali

Vent’anni fa la morte di un grande campione dello sport italiano. Il mito di Gino Bartali raccontato da Gioia, sua nipote

«Basta Gino, sono le due di notte. Lo sappiamo che hai staccato Bobet ma ora andiamo a dormire». Era fatto così, Bartali. Gli chiedevano di parlare e parlava. Sempre di ciclismo, anche se aveva smesso di pedalare da un po’. La gente gli voleva bene e lui voleva bene alla gente. A vent’anni dalla morte, lo racconta Gioia, sua nipote.

«Il ciclismo era tutto per lui e ricordava ogni pedalata della sua carriera. Non so come facesse, ma i suoi racconti sembravano affreschi. Le persone lo ascoltavano in estasi, ne aveva per tutti. Andava fermato, avrebbe potuto parlare per ore».

Ginettaccio da Ponte a Ema non era nato con l’idea di fare il ciclista. L’incontro con la bicicletta fu un regalo inaspettato di Torello e Giulia, i suoi genitori. Era usata e pesante. Gli serviva per andare a scuola a Firenze, per finire le elementari. Poi entrò da garzone nella ciclofficina del Casamonti. E le imprese di Costante Girardengo, Learco Guerra e Alfredo Binda fecero il resto. «Fu quel bottegaio a intuire, a soli 13 anni, la bravura del nonno. Durante una gara amatoriale, nell’ultimo tratto di salita, non riuscì a staccarlo di ruota. Rimase sorpreso e il giorno dopo lo accompagnò dal padre per convincerlo che quella fosse la strada del piccolo Gino. Per babbo Torello però, il ciclismo non era un lavoro. La fame e la miseria avevano bisogno di mestieri veri, servivano soldi». 

Un nonno in giallo: la leggenda di Gino Bartali

Ma quel ragazzo era testardo. «A l’Antella, a pochi chilometri da casa sua, vinse la prima gara da dilettante. Una gioia che durò poco. La corsa era riservata agli under 16 e lui, che proprio quel giorno compiva 17 anni, venne squalificato». 

Non si perse d’animo e iniziò a vincere corse locali con in palio piccoli premi in denaro. Voleva guadagnarsi la sua strada e lo fece anche cedendo vittorie ad altri corridori, barattando il prestigio del trionfo con i soldi. Fin quando l’Aquila Divertente, la società del paese, scoprì il suo stratagemma e decise di investire su di lui.

L’anno che gli cambiò la vita fu il 1935. Partecipò per la prima volta alla Milano-Sanremo, al Giro d’Italia e si fidanzò con Adriana. «Sono stati inseparabili per più di sessant’anni. Quel brontolone aveva un lato romantico che non conoscevo. Ho letto centinaia di lettere inviate alla nonna e scriveva davvero bene». La moglie gli fu accanto nel momento più difficile: la morte del fratello Giulio lo aveva portato a fermarsi. Anche lui ciclista, venne investito durante una gara dilettantistica. Fu lei a convincerlo a tornare in sella: «Si era innamorata di un corridore e nonno riprese la bicicletta per lei».

Nonno Gino Bartali
Gino Bartali con sua moglie Adriana e le due nipoti Gioia e Stella

Un episodio sconosciuto racconta l’umanità di Gino Bartali. Qualche anno fa un anziano signore contattò la famiglia di Gioia. Aveva delle cose importanti da dire e andarono a trovarlo a Mogliano, nelle Marche. L’uomo stava scrivendo un libro di memorie, dove raccontava della sua prigionia in Germania e del ritorno a casa a piedi al termine della guerra. Vicino a Modena, esausto, aveva incontrato un gruppo di ciclisti. C’era anche Ginettaccio, che lo fece rifocillare e, dopo aver ascoltato la sua storia, gli chiese se avesse bisogno d’altro. Vergognandosi, quell’uomo disse: «Signor Bartali, ho un problema. Le mie scarpe non hanno più la suola e sono legate con un fil di ferro. Mi darebbe le sue?». Gino gli disse di aspettare, che sarebbe tornato subito. Qualche minuto dopo si presentò con un paio di scarpe nuove e gliele regalò. «Ci disse – racconta Gioia – di essere tornato a casa grazie a quel gesto. Sono piccole cose, ma per una nipote ascoltarle a distanza di anni è un valore aggiunto».

Non fu un fatto isolato. Durante il conflitto bellico trasportò, nel telaio della bicicletta, documenti falsi per gli ebrei. «All’inizio arrivava fino a Genova, dove prendeva i soldi che venivano da un’organizzazione per la salvezza di quel popolo. Sulla strada del ritorno si fermava spesso alla Certosa di Lucca, da padre Costa, che nascondeva tante persone. Finché qualcuno non fece la spia. Arrivarono i nazisti, fucilarono tutti. Il nonno rimase colpito e non ci tornò più, nemmeno dopo la guerra. Cambiò percorso, arrivando ad Assisi. Andata e ritorno nella stessa giornata. Più di 340 chilometri nelle gambe». 

La vicenda venne fuori negli anni ‘80, con l’uscita di Assisi underground, una produzione Rai che raccontava l’attività della città umbra per il salvataggio degli ebrei. «Si scoprì il personaggio del nonno. Era lui la staffetta. La prese male, si arrabbiò perché non gli era stato chiesto il permesso. Non voleva che fosse raccontata quella storia. In famiglia abbiamo rispettato il suo desiderio di riservatezza, ma oggi che non c’è più è bello restituire il suo insegnamento. Ha rischiato la pelle per salvare persone che non conosceva».

Gino Bartali ha sempre rispettato tutti, anche gli avversari. Uno in particolare. «Il rapporto con Coppi andava oltre la rivalità sportiva, si volevano bene. Anche lui aveva perso il fratello Serse durante una corsa. Marco Torriani, figlio dell’ex patron del Giro d’Italia, mi raccontò che al funerale fu Fausto in persona a chiedere al nonno di consolare sua madre. Conosceva quel dolore».

Un nonno in giallo: la leggenda di Gino Bartali
Gino Bartali e Fausto Coppi, Tour de France 1952

Erano due campioni accomunati dalla tenacia. Avevano vissuto la fatica nello stesso modo, senza mai mollare. Nel ’46 parteciparono al Giro di Svizzera, l’unica gara all’estero permessa allora agli italiani. Rendendosi conto della difficoltà degli emigrati, trovarono un affetto che non vollero tradire. «Collaborarono per vincere la corsa, ma sull’ultimo rettilineo bisticciarono per chi dovesse tirare la volata. Poi vinse il nonno». Le due figure contrapposte sono state costruite dalla stampa dell’epoca. Incentivare la rivalità accendeva l’entusiasmo dei tifosi. 

Sono nate molte leggende. Su tutte, quella legata alla storica foto di Carlo Martini, che ritrae Coppi e Bartali sul passo del Galibier. È il Tour de France del ’52 e i rivali si passarono una borraccia. Ma chi la passò all’altro? «Mio nonno è stato perseguitato da questa domanda. Diceva: ‘Tu stai per Coppi? Allora me l’ha passata lui’».

Era amico di tutti Ginettaccio. Le persone gli volevano bene: «Ho tante testimonianze di gente che l’ha conosciuto, ma anche chi l’ha solo visto in tv lo racconta come una persona buona. La sua umiltà colpiva». 

Una volta, alzandosi sui pedali, salvò persino l’Italia dalla rivolta. «Nel luglio del ‘48, De Gasperi lo chiamò e gli chiese di vincere il Tour. Dopo l’attentato a Togliatti, il Paese aveva bisogno di distrarsi. In classifica nonno era a 21 minuti di distanza dalla maglia gialla e gli rispose, senza assicurare nulla, che avrebbe provato a vincere la tappa successiva». Non si accontentò. Sulle Alpi staccò Bobet e conquistò la Grand Boucle a Parigi. Definito “vecchio” dalla stampa francese, a 34 anni centrò la sua vittoria più bella.

Le sue imprese sono scolpite nella storia, non servono trofei per ricordarle. «Nel ‘66, la grande alluvione che colpì Firenze portò via quasi tutto dal suo garage. Delle cose rimaste, tre biciclette vennero donate al museo di Ponte a Ema, a lui intitolato. Io conservo le fasce del Tour del ‘48, del Giro d’Italia del ‘46 e di quello di Svizzera del ‘47. Le due maglie gialle, invece, sono nella chiesa di Santa Petronilla a Siena. Per il nonno donare significava avvicinarsi a Dio e a un fratello perso troppo presto». 

Nonno Gino Bartali

Non dimenticò mai Giulio. «Per sentirsi più vicino a lui prese i voti, diventando terziario carmelitano. A casa gli dedicò una cappella privata, in una piccola stanza, dove celebrava messa prima di correre un Giro o un Tour. Poi le annotava su un quadernino. Ne ho contate più di trecento».

Una volta, qualcuno disse che il ciclismo è «la fatica più sporca addosso alla gente più pulita». È vero. Ginettaccio rimase sempre umile, anche quando sulle Alpi staccò tutti per diventare leggenda.