«Sta vorta c’hai fatto piagne» era la scritta che sventolava sui cieli della capitale, attaccata alla coda di un aereo. Sotto, una fiumana di gente attendeva il suo turno per poter entrare nella camera ardente e dare l’ultimo saluto all’artista che più di altri era riuscito a raccontare, con cinismo e ironia, i loro difetti le loro debolezze. Così si concludeva la parabola di Alberto Sordi, una storia iniziata un secolo fa, il 15 giugno del 1920.
Alberto Sordi si rivelò al pubblico poco per volta. Gli italiani lo scorsero per qualche istante nel kolossal “Scipione l’Africano” diretto da Carmine Gallone, dove comparve nel ruolo di un soldato romano. Poco più tardi fece sentire il suo vocione, senza però mostrarsi in video. Prestò infatti la voce al grande Oliver Hardy, dandogli un accento americano che divenne il marchio di fabbrica del duo comico Stanlio e Ollio. In quel periodo si unì alla compagnia teatrale di Aldo Fabrizi e Anna Fougez. L’esperienza fu infruttuosa dal punto di vista della carriera, ma Sordi volle raccontarla diversi anni dopo, nel ’73, con il film “Polvere di Stelle”.
«Il doppiaggio di Stanlio e Ollio è una delle cose più deliziose del cinema di quel periodo. Sordi e Zambuto si sono inventati questo modo di parlare molto lontano da quello che era l’originale. Hanno spostato gli accenti, hanno diversificato le voci. Hanno aggiunto roba. Bellissimo lavoro»
Mina
Scoppiò poi il secondo conflitto mondiale, e Sordi, come il resto del mondo, dovette attendere per tornare a ridere, e a far ridere.
Tornata la pace, Sordi ripartì da dove aveva lasciato: dalla voce. In radio diede vita a personaggi comici di successo che portarono il regista Vittorio De Sica a interessarsi di lui, e a offrigli la chance che tanto aspettava, il ruolo di protagonista in una pellicola cinematografica. Il film era “Mammamia che impressione”, che però non ebbe il successo sperato.
In quegli anni Sordi si trovò a lavorare con un altro gigante della comicità, Antonio De Curtis, in arte Totò, nel film “Toto e i re di Roma”. L’attore napoletano si accorse subito di aver trovato un giovane di talento. In una scena, in cui Sordi e Totò erano fianco a fianco, il primo doveva recitare uno sketch comico con un terzo personaggio, e il principe De Curtis doveva rimanere in disparte. Durante le riprese, a un certo punto, Totò, come era solito fare, improvvisò. Si mise dietro Sordi e finse di sputargli sul collo. Fu un gesto che i due registi, Monicelli e Steno, in principio non riuscirono a spiegarsi, racconta il figlio di Steno, Enrico Vanzina. Più tardi compresero: “Totò aveva capito che Sordi era un grande attore e gli stava rubando la scena, doveva entrarci in qualche modo”.
Per raggiungere la sua consacrazione, Sordi, dovette però aspettare il 1953 con il film dell’amico Federico Fellini, “I Vitelloni”, e la pellicola corale di Steno “Un giorno in pretura”, nella quale portò in scena il personaggio di Nando Mericoni, il giovane perditempo che voleva fare l’americano. Da quel momento la stella di Alberto Sordi non smise più di brillare.
«Quando frequentavo l’accademia d’arte, la mia insegnante di dizione se la prendeva con me perché dicevo guera invece di guerra, fero invece di ferro, na borsetta invece di una borsetta, io mi difendevo sostenendo che così parlava la gente, e lei mi rispondeva che l’attore non parla come la gente, ma parla come un attore. Alla fine mi disse di non perdere tempo, e di non venire più in accademia. Appena uscito dall’aula mi misi a piangere perché avevo accusato il colpo. L’unica qualità che avevo era che somigliavo alla gente, e mi era appena stato detto che un attore non doveva somigliare alla gente. Mi sentivo finito. Poi arrivò il neorealismo, e per me era fatta». Alberto Sordi raccontò questo aneddoto quando gli fu consegnato il diploma ad honoris causa dell’Accademia dei Filodrammatici nel 1999. Era proprio questa la sua grande dote, sapere come raccontare la gente, in particolare gli italiani. Lo faceva senza filtri, mostrandone, il più delle volte, il lato peggiore.
Portava in scena i furbi, gli imbroglioni, i donnaioli, i cinici e i perditempo. Il gondoliere Bepi in “Venezia la luna e tu”, che pur impegnato e innamorato della fidanzata, non riesce a non fare il cascamorto con le turiste straniere venute in vacanza nella Serenissima. La famiglia del commerciante d’armi da guerra Pietro Chiocca che, nel film “Finché c’è guerra c’è speranza”, preferisce portare avanti una vita agiata, piuttosto che far cambiare lavoro al capofamiglia. Il marchese del Grillo, che annoiato dalla vita agiata che il titolo nobiliare gli ha concesso, passa il tempo a fare scherzi a poveri malcapitati. Alberto Nardi, un imprenditore incapace e megalomane che spera di raggiungere la (im)meritata fortuna dalla morte della moglie, nella pellicola “Il vedovo”. Questi sono solo alcuni dei ritratti, poco lusinghieri, interpretati dall’artista romano.
«Alla comicità di Alberto Sordi ridiamo solo noi: perché solo noi conosciamo il nostro pollo. Ridiamo, e usciamo dal cinema vergognandoci di aver riso, perché abbiamo riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo» Pier Paolo Pasolini
Sordi ha anche portato in scena il riscatto di alcuni personaggi. Lo ha fatto nel capolavoro di Monicelli “La Grande Guerra” con il personaggio di Oreste Jacovacci, un soldato che cerca in tutti i modi di evitare situazioni pericolose, ma che alla fine, a modo suo, sacrifica la vita pur di non tradire i compagni; e nella pellicola di Dino Risi, “Una vita difficile”, in cui ha interpretato l’idealista Silvio Magnozzi, che rinuncia ai propri ideali per una vita più agiata, mettendosi alle dipendenze di un uomo che lo umilia. Nel finale però, dopo l’ennesima umiliazione, riaffiorano gli ideali e il protagonista colpisce il suo superiore con uno schiaffone liberatorio.
«Non è un uomo colto. Non ha letto niente. Ma ha un colpo d’occhio infallibile. È un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte» Rodolfo Sonego
Sordi non ha raccontato solo gli italiani, ma anche la storia del nostro paese, sempre mantenendo il suo stile inconfondibile. Ha messo in scena il passaggio dall’Italia fascista a quella della resistenza nella pellicola “Tutti a casa”. Ha raccontato il Boom economico degli anni ‘50, mostrandone però i suoi lati più oscuri, portando in scena personaggi in cerca di appoggi e raccomandazioni ne “Il Marito”, o che darebbero un occhio per denaro ne “Il Boom”.
«Sordi, secondo me, è un inventore di cose nuove, di comicità nuova, è stato un precursore» Massimo Troisi
Ha portato in scena il mondo poco etico della sanità nei due film che vedono protagonista il medico della mutua Guido Tersilli. Ha predetto lo scandalo di Mani pulite con il film “Tutti dentro”. Ha raccontato la vecchiaia in uno dei suoi ultimi film “Nestore, l’ultima corsa”, una pellicola malinconica, che lasciava presagire la sua vicina uscita di scena.
«È stato l’attore più grande, ma è soprattutto stato uno straordinario autore, l’artefice del suo personaggio con cui ha attraversato più di 50 anni di storia italiana. Da regista dico che era straordinariamente facile lavorare con Sordi proprio perché era un grandissimo; bastavano poche occhiate e ci si capiva sul tono da dare alla sua interpretazione e quindi al film. È stato un comico capace di contraddire tutte le regole del comico»
Mario Monicelli
Non vinse mai l’Oscar, ma non passò inosservato dall’altra parte dell’oceano. Robert De Niro studiò i suoi film per capire come interpretare il ruolo dell’ubriaco. La città di Kansas City lo premiò con la cittadinanza onoraria, grazie al personaggio di “Un americano a Roma” che si vantava sempre di essere cittadino della città statunitense. Ma lui la romanità se la portava fieramente addosso, e anche quando interpretava personaggi veneti, milanesi o siciliani, ogni tanto, il dialetto della città, di cui fu sindaco per un giorno, gli scappava fuori.
«Mi raccomando: finché non sarò in orizzontale, evitate di raccontare i fatti nostri. Quando sarà, allora sì, mi farà anche piacere»
Alberto Sordi ai suoi nipoti
Dell’Alberto Sordi privato non si è mai saputo molto.
Non si è mai sposato, eppure ha avuto tante donne; si diceva fosse avaro, eppure ha fatto tanta beneficenza. Faceva una vita mondana, poi però, quando tornava a casa, circondato dai suoi oggetti di scena che conservava come reliquie, si chiudeva in sé stesso, con le serrande semichiuse, poteva togliersi la maschera da mattatore e smettere finalmente di recitare. Quella casa, che è stata il suo rifugio per decenni, oggi, in occasione del centesimo anniversario dalla nascita, è diventata un museo aperto al pubblico.
A un secolo dalla sua nascita di lui rimangono le canzoni che ancora in tantissimi conoscono a memoria, come la spiritosa “Te c’hanno mai mannato a quel paese”, o la più triste e emozionante “Breve amore”. Rimangono i poster dell’americano a Roma che mangia scompostamente i maccheroni, appesi sulle pareti delle trattorie romane. I tormentoni come “Io so io e voi non siete un caz..”. Ma soprattutto Alberto Sordi ci ha lasciato le risate, che a ogni riproposizione delle sue performance riesce ancora a regalarci.
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