Annusa il legno e lo accarezza. Le sue mani vanno a memoria. Senza paura, sfiorano la sega circolare, ripetendo i gesti di una vita, che ogni volta sembrano nuovi. È così che la materia si trasforma, che l’intuizione diventa immagine. «Il Maestro Morricone lo diceva sempre. Dopo che un’idea nasce, bisogna svilupparla, farla crescere. Scolpire è come comporre musica, il tavolo da lavoro è il mio pentagramma».
Ferdinando Codognotto si ripara dal sole di luglio all’ombra della sua bottega. Lo spazio è angusto, basta per la sedia e un tavolino, dove sono sparsi bozzetti e matite. Creature di legno lo circondano, a controllare chiunque bussi al numero 14 di Via dei Pianellari. Piazza Navona dista alcune centinaia di metri, ma nell’estate della pandemia sono pochi i turisti che passeggiano per i vicoli del centro di Roma. L’uomo si accarezza la barba bianca e da dietro gli occhiali fissa una foto. «E pensare che ho sentito Ennio un mese fa. Voleva sapere della mia ulcera gastrica. Qui è quando gli ho regalato una cornucopia per i suoi 90 anni. Era un caro amico, mi mancherà».
Nel 1963, a ventitré anni, lascia San Donà di Piave, disposto a mangiare “pane e aglio” pur di fare lo scultore, il mestiere per cui è nato. Al suo fianco Luigina, compagna di una vita, morta nel 2006. «La prima volta che la vidi, mi spiava da un balcone mentre tornavo a casa. Eravamo ragazzini. Poi, appena sposati, salimmo su quel treno per Roma, lasciandoci alle spalle il Veneto e le malelingue di paese. Credevano che un artista fosse solo uno spiantato con le tasche vuote. Non per lei, che ha sempre creduto in me nonostante la tradissi con “quell’altra”: l’arte è un’ amante esigente, che non accetta di essere trascurata. E mia moglie questo lo aveva accettato».
Dopo tanti sacrifici, negli anni Settanta arrivano riconoscimenti e successo. Galleristi, critici, tutti cercano Ferdinando. La sua arte inizia a viaggiare prima in Italia, poi nelle collezioni private e pubbliche di tutto il mondo. La visita alla bottega diventa un francobollo sulla cartolina della Città Eterna. Lo invitano in televisione, frequenta autorità e personaggi del cinema. Dalla cometa di Halley in legno regalata a Papa Giovanni Paolo II, alla cena con Liz Taylor e Richard Burton. Senza dimenticare le serate con l’amico Anthony Quinn e i tornei di tennis a casa di Tognazzi. «Ugo era bravo, spesso vinceva. A me non piaceva giocare, ma ideavo e scolpivo il premio».
Nonostante la fama, la sua creatività resta vivace, sempre alla ricerca del punto d’incontro tra natura e tecnologia. Una tradizione futuristica, che sposa gli insegnamenti del padre giardiniere, gli studi alla Scuola d’Arte di Venezia e le letture dei testi di robotica che lo appassionavano da ragazzo. Con la voglia di raccontare sé stesso, per scacciare la vera fine del mondo: quella in cui gli uomini non parleranno più tra loro.
In strada i titolari dei negozi salutano il Maestro, che risponde gioviale, con accento veneto imbastardito dai termini romani. Solleva il bastone e mostra la sua galleria all’aperto. Fogli di giornale e foto con VIP appese all’esterno del laboratorio, rovinati dalle intemperie, ma ancora leggibili.
Poi, a piccoli passi, si dirige verso un locale distante qualche numero civico. L’insegna riporta il suo nome e quello della moglie. «Nel 2015 è nata la “Fondazione Ferdinando e Luigina Codognotto”, dove espongo i miei lavori più celebri e faccio incontri culturali con i ragazzi. Ho anche istituito un premio annuale, che consegno a chi si è distinto nel proprio campo». Tra i vincitori, gli attori Lino Banfi e Alessio Boni, il regista Giuseppe Tornatore, il presentatore e amico Pippo Baudo.
Prima di salutarci Ferdinando confessa che la bottega su strada l’ha reso un po’ psicologo, perché confrontarsi con gli altri insegna ad ascoltare e ti arricchisce. Le persone sono mondi, che accendono la scintilla dell’inventiva. Un difetto, un vizio, tutto può assumere forma. La risata rimane discreta, ma le sue guance diventano ancor più rubiconde, quando ci confessa i suoi: la golosità e la paura per l’acqua.