Mortalità e letalità. Guai a considerarli sinonimi in campo scientifico. Un ambito in cui la ricchezza della nostra lingua rischia di confondere i non addetti ai lavori. E ora che in Italia i contagi sono tornati a salire, si cercano numeri precisi, in cui credere e sperare. Per gli specialisti, al momento, il rischio di un secondo lockdown è distante, ma non significa che il virus sia meno pericoloso. E quei termini matematici di cui parlano i media, oltre che minacciosi, rimangono difficili da interpretare.
Per classificare la gravità della patologia, e capire come il nuovo microrganismo si stia comportando, si valutano i decessi. Ce lo ha spiegato Flavia Riccardo, medico infettivologo e ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità (ISS).
Dottoressa, quali sono gli indici a cui fare riferimento?
«Il più immediato è il case fatality rate (CFR), che in italiano può essere tradotto come tasso di letalità. Si moltiplica per 100 il rapporto tra il numero di decessi per quella malattia e il totale dei casi identificati e confermati. Nel caso di COVID-19, dopo la positività al test molecolare su tampone orofaringeo, come da indicazioni nazionali ed internazionali. È fornito in maniera puntuale ed è utile perché permette di monitorare l’andamento dell’epidemia. Al 31 agosto 2020, sulla base dei dati di sorveglianza integrata COVID-19 (coordinata dall’Istituto superiore di Sanità), la letalità in Italia era 13,4% (fonte ISS). L’infection fatality rate (IFR), invece, si riferisce alla percentuale di persone decedute tra tutte quelle che hanno contratto l’infezione. A livello mondiale si stima tra 0,5 e 1% (fonte OMS)».
Quali sono i loro limiti?
«Il numero reale di decessi per un singolo patogeno è molto difficile da conoscere. Facendo stime e calcoli su gruppi di popolazione parziale, i valori che troviamo non sono mai gli stessi. Non per questo, però, c’è contraddizione o errore. Le cifre vanno interpretate. Nel dato di sorveglianza di una malattia infettiva il numero di persone che contraggono l’infezione è sottostimato, perché una parte di esse non entra in contatto con il sistema sanitario, ad esempio perché asintomatica. Pertanto non verrà notificata. Questo concetto viene descritto come “piramide della sorveglianza”. COVID-19 ne è una prova. Il CFR è un indice immediato e disponibile, ma anche distorto dal fatto che si tende a identificare con maggiore probabilità la quota di popolazione che ha sviluppato forme più gravi della malattia. Tale effetto è evidente all’inizio delle epidemie, in cui la letalità è molto alta. Si riduce quando migliorano le conoscenze sulla patologia, aumentano le capacità diagnostiche e vengono notificati anche soggetti con quadro clinico meno severo, con una più bassa probabilità di morire. Perciò il rapporto tra deceduti e casi totali tende a diminuire.
Sebbene nella sorveglianza COVID-19 questo fenomeno sia in parte avvenuto, nella fase attuale il minor numero di decessi da SARS-CoV-2 in Italia è da attribuire anche a una transizione epidemiologica: è cambiata la struttura della popolazione con l’infezione. Nel mese di marzo, in piena emergenza, si raccomandava la diagnosi ai soggetti con sintomi, che veniva spesso realizzata in ospedale. Oggi, con l’accertamento diagnostico attraverso screening di popolazione e tracciamento dei contatti, la maggior parte delle persone scopre di aver contratto il virus senza aver presentato sintomi. Dunque i numeri sono differenti anche grazie al diverso metodo d’indagine. Al contrario, IFR è di solito stimato, in base ai dati provenienti da indagini sierologiche su campioni rappresentativi e casuali della popolazione, che costituiscono un’importante risorsa per studiare la circolazione dei microrganismi patogeni.
Esistono altri metodi?
«Ulteriori modi per conoscere l’impatto diretto e indiretto di malattie infettive sulla popolazione sono gli studi sull’eccesso di mortalità. Significa confrontare il numero dei decessi durante la diffusione di una patologia, come COVID-19, con quello dello stesso periodo, ma relativo ad anni precedenti. In Europa, durante la scorsa primavera, è stato osservato in tutti i Paesi un aumento della mortalità con andamenti simili, seppur con tempi differenti. Permette un confronto tra nazioni ed è molto utilizzato per studiare l’impatto dell’influenza sulla mortalità».
Perché è un diverso approccio al problema?
«Quando parliamo di mortalità, al denominatore mettiamo la numerosità della popolazione in un intervallo di tempo definito. Per la letalità, invece, il numero di casi diagnosticati e per l’IFR il numero stimato di infezioni avvenute. Letalità e IFR misurano la gravità dell’infezione, la mortalità è un indicatore che combina la gravità con la diffusione della malattia».
Perché gli indici sono così diversi tra i vari Paesi?
«Il limite della letalità è soprattutto nel confronto tra Stati, perché si basano su dati di sorveglianza non sempre confrontabili per caratteristiche di implementazione, metodi di rilevazione e modalità di classificazione. Non si tratta di valori che possono subito essere paragonati. Ci sono tre variabili che incidono: la diffusione di SARS-CoV-2, il sistema di classificazione dei decessi e il tipo di popolazione colpita. Ad esempio gli anziani, o i soggetti con altre patologie, sono categorie a maggior rischio. All’inizio in Italia si rilevava un indice di letalità più elevato rispetto ad altri Paesi, che avevano un andamento epidemiologico molto diverso».
Quali sono le fonti ufficiali a cui far riferimento?
«In Italia esistono due flussi di sorveglianza per COVID-19. Uno coordinato dal Ministero della Salute, pubblicato sul sito della Protezione Civile, che raccoglie dati aggregati. Vuol dire che ogni giorno viene comunicato il numero dei nuovi casi diagnosticati e quello dei decessi ritenuti associati al Coronavirus nel nostro Paese. Sono informazioni veloci, ma meno dettagliate. Il secondo sistema, condotto dall’Istituto Superiore di Sanità e ormai ben allineato con il primo, è basato sui dati individuali dei soggetti con infezione da SARS-CoV-2 confermata in laboratorio. Garantisce una analisi stratificata in base alle caratteristiche demografiche, alla gravità della patologia e al luogo di residenza, che non sarebbe possibile sulla base di dati aggregati. Sul sito Epicentro pubblichiamo l’infografica quotidiana, le curve epidemiche, la distribuzione geografica, la letalità per classe di età. Inoltre tutte le settimane presentiamo un bollettino con il punto della situazione e un’appendice con un approfondimento per ciascuna Regione o pubblica amministrazione».
Come intrepreta il primo caso a Hong Kong di reinfezione confermata?
«La notizia è importante ma non così sorprendente. Occorrerà capire quanto il fenomeno sia frequente e rilevante dal punto di vista clinico e della sanità pubblica. Infatti, contrarre di nuovo il virus non vuol dire per forza partire dallo stesso livello di suscettibilità iniziale. Nel caso specifico, se fosse confermato che le persone con reinfezione sviluppano sintomi più lievi o assenti, vorrebbe dire che il sistema immunitario, sebbene non riesca completamente a contrastare una seconda infezione, impedisce in modo efficace la progressione della malattia verso forme più gravi. Dunque sono tre i punti da approfondire: la frequenza, gli eventuali fattori di rischio associati e come la risposta al virus cambia nel tempo. Bisognerà definire anche le tecniche con cui studiarla, data la complessità del sistema immunitario. Tutte domande che vanno di pari passo con lo sviluppo del vaccino e che non devono allarmarci. In quanto virus nuovo, SARS-CoV-2 va analizzato con attenzione perché non abbiamo esperienze passate a cui far riferimento».
Si stanno elaborando nuove linee guida per la diagnosi differenziale con influenza stagionale?
«Sono in corso diverse valutazioni. In Italia esiste Influnet, un sistema sentinella per la sorveglianza di influenza e sindromi influenzali, sempre coordinato dal team dell’Istituto Superiore di Sanità che si occupa anche di COVID-19. Sono oggetto di studio possibilità di collaborazione e integrazione, sia dal punto di vita epidemiologico che virologico. Ad esempio con un unico accertamento diagnostico per influenza e SARS-Cov-2. Ma bisogna valutare la sostenibilità nel tempo».
L’Italia rischia un secondo lockdown?
«Al momento no, perché la situazione è cambiata, soprattutto per una maggiore consapevolezza del cittadino. Ma anche grazie all’accrescimento della capacità diagnostica, del monitoraggio dei casi potenzialmente esposti e della gestione clinica, caratterizzata dalla riduzione del rischio di trasmissione in strutture sanitarie, da un aumento del personale e delle strutture dedicate. Ma è un quadro che merita attenzione, perché l’epidemia non è finita e dobbiamo rispettare in maniera rigorosa regole e comportamenti se vogliamo evitare una trasmissione non controllabile. Siamo in una fase epidemiologica definita di transizione, con tendenza a un progressivo peggioramento, con casi in crescita da oltre quattro settimane. Proprio perché questi focolai vengono identificati e monitorati, i nostri servizi territoriali e i dipartimenti di prevenzione, rafforzati per fronteggiare questa emergenza, sono sottoposti a grande pressione. Se la loro capacità di risposta dovesse essere superata, ci sarebbe il rischio di una trasmissione diffusa e in seguito un possibile sovraccarico delle strutture di assistenza. La scorsa settimana, l’età mediana dei casi notificati era intorno ai 29 anni, contro 62 del primo mese di epidemia. È più difficile che i giovani vadano incontro a una malattia grave, ma c’è il rischio di un incontro tra generazioni dopo le vacanze estive e che i soggetti inconsapevoli che hanno contratto l’infezione possano infettare i propri familiari, tra cui gli individui più fragili. Se moduliamo i nostri comportamenti riduciamo la capacità del virus di trasmettersi, migliorando il capillare lavoro degli enti territoriali. Per ora ci stiamo riuscendo, ma dobbiamo tutti collaborare per alleggerire il lavoro di indagine ed evitare la necessità di misure aggiuntive, che riducano movimenti e contatti. Abbiamo visto quello che SARS-CoV-2 può fare se circola senza controllo. Sappiamo cosa voglia dire sorvegliarlo in quella fase e le conseguenze sociali ed economiche di un lockdown. Tornarci sarebbe un fallimento».