«Comunicare al paziente la negatività all’ultimo tampone, è quello il momento più bello della giornata. Ogni volta mi emoziono. Qualcuno salta sul letto, altri spalancano gli occhi e mormorano parole incomprensibili, coperte dal rumore dell’ossigeno. C’è chi mi chiede ‘Dottorè, non distinguo i tasti del cellulare. Ci pensa lei a dare la notizia a mia moglie?’. Così ti metti a digitare il numero giusto con un doppio paio di guanti». Gabriella, 29 anni, è medico in formazione specialistica in Malattie Infettive e Tropicali al Policlinico Umberto I di Roma. Dal 30 ottobre ha firmato un contratto che la rende strutturata per 12 mesi. Nuovi ruoli e responsabilità. Un salto grande, condiviso con altri giovani colleghi, diventati presto “adulti” nell’epoca della pandemia.
Il dipartimento è stato quasi per intero dedicato a Covid-19, suddiviso in reparti in base all’insorgenza e alla gravità della sintomatologia dei ricoverati. L’esperienza dell’ondata precedente ha permesso di organizzare in modo mirato routine e turni degli operatori sanitari. A partire dall’ingresso in ospedale. Un ascensore dedicato agli addetti ai lavori, la vestizione nella “zona sporca”, la continua disinfezione degli strumenti. «Eravamo abituati a indicare i pazienti col nome della malattia. Al letto 2 una meningite, al 7 un’infezione urinaria, a fianco una malaria che suona sempre il campanello. Ti affezionavi, davi soprannomi. Ora ci confrontiamo con un solo quadro, totalizzante. Per fortuna, con nozioni e una consapevolezza in più rispetto a marzo, quando l’emergenza ci aveva travolto».
Inevitabile che il rapporto tra medico e paziente sia diverso. «Prima del coronavirus ti cautelavi, ma non avevi paura. Sorriso e stretta di mano, così iniziavano le mie anamnesi. E poi battute per sdrammatizzare, una pacca sulla spalla, una carezza. Domandavo di figli, nipoti, squadre del cuore. Cercavo di stabilire un legame e i malati si sentivano protetti, coccolati. Ora non sempre distinguono chi hanno di fronte. In quell’esercito di mascherine potrebbero esserci medici, infermieri, operatori sanitari. Anche toccarli è diverso, come ci fosse un filtro. E poi doversi presentare ogni volta che entri in stanza ti allontana dalla persona».
Con la pandemia il vissuto lavorativo di Gabriella è cambiato, come il suo approccio con la morte. «I decessi sono più frequenti, improvvisi. Spesso fai fatica a mettere a fuoco. Mi sono dovuta fortificare, senza diventare cinica. Ma non è l’aspetto peggiore. Questa malattia è frustrante, sei convinta di aver previsto tutto, ma il quadro può cambiare in modo repentino. E una volta a casa, non riesci a staccare, subentra la paura, un sentimento con cui fai i conti da sempre, ma che oggi ha sfumature diverse. Per non parlare delle notti di guardia. Possono esserci anche dieci ricoveri. E tu sei solo, non c’è più il dirigente medico responsabile a cui chiedere aiuto».
Senza dimenticare il delicato rapporto con i famigliari. «È complicato incontrarsi di persona, comunicare attraverso la cornetta. Spero di non dover più parlare di morte al telefono. Quasi mi mancano i parenti che chiedono informazioni fuori dall’orario dei colloqui. O gli omaggi gastronomici, ringraziamento per il lavoro svolto». La sua esperienza, come quella di milioni di medici, finirà sui testi scientifici, da studiare all’università. È l’occasione per scherzarci su: «Dove sono finite epatite, varicella, infezione di protesi? Mi mancano. I pazienti con febbre di origine sconosciuta no, invece. Non riuscirei più ad avvicinarmi senza dispositivi di protezione, avrei sempre timore di un falso negativo al tampone per Covid-19».