«C’è uno sport chiamato Buzkashi, tipico dell’Afghanistan e delle steppe dell’Asia centrale. I giocatori sono a cavallo e devono rubarsi a vicenda una carcassa di capra che si trova a terra. Non ci sono squadre, ognuno è in campo da solo, non ci sono distanze definite, non ci sono falli. Ma i giocatori sanno esattamente come fare. Questo gioco ha regole incomprensibili per gli stranieri e veniva utilizzato come metafora per descrivere la complessità della società afghana e la difficoltà di imporre delle regole».
Viviana Mazza giornalista, autrice, scrive per la redazione esteri del Corriere della Sera, è al telefono.
«Negli ultimi duecento anni l’Afghanistan è diventato teatro di un altro Grande Gioco, anche questo senza regole, che coinvolge le più importanti potenze del mondo, entrate in competizione nel paese per la sua posizione strategica, cuore dell’Asia. I due giochi si intrecciano tra loro, come spiega Tamim Ansari nel suo libro Games without Rules, e così gli interventi stranieri sono come interruzioni continue di una storia che procede a zigzag»
Viviana Mazza è stata in Afghanistan nel 2016 per ascoltare le voci delle donne visto che l’intervento occidentale dopo l’11 settembre 2001 è stato presentato anche come un’opportunità di aiutare le afghane, oppresse dai talebani.
Ha raccontato la storia Farkhunda, in un capitolo del libro Le ragazze di via Rivoluzione, un viaggio nella libertà delle donne dal Pakistan all’Egitto che evidenzia quanto siano fragili le conquiste raggiunte e come le donne consapevoli dei propri diritti vivano in un limbo di incertezza e ostilità.
Farkhunda aveva denunciato la violazione delle regole islamiche all’interno di una moschea, dove venivano venduti amuleti alle donne analfabete che speravano di trovare marito, restare incinta o avere figli maschi. Un’inchiesta svelò che le donne venivano anche segretamente spinte ad avere rapporti sessuali con i membri del santuario.
Farkhunda aveva 27 anni, era una donna colta e religiosa e denunciò l’accaduto. Per farla tacere il custode cominciò a gridare, l’accusò di aver bruciato il Corano, una folla si strinse attorno a lei. Fu uccisa con calci, pugni e sassate, e bruciata in pieno giorno davanti a una moschea di Kabul, la capitale dell’Afghanistan.
«Non è stato possibile fare chiarezza su quanto è accaduto – spiega Viviana Mazza – anche perché l’area in cui è avvenuto l’omicidio era sotto il controllo del figlio di uno dei cosiddetti signori della guerra, i comandanti jihadisti che hanno combattuto i talebani ma che spesso sono fondamentalisti quanto i talebani». I signori della guerra sono come delle mafie locali che governano i territori, mujāhidīn, combattenti, che godono dell’appoggio degli americani.
Prima del 2001 – quando arrivarono gli americani con l’appoggio della Nato, alla ricerca del leader di Al-Qaeda, Osama bin Laden, dopo gli attentati dell’11 settembre – c’erano i sovietici e il conflitto russo-afghano: da un lato le forze armate della Repubblica Democratica dell’Afghanistan appoggiate dall’Unione Sovietica, dall’altro gruppi di guerriglieri afghani, i mujāhidīn, sostenuti da Iran, Pakistan e poi Stati Uniti.
La complessità della società afghana si riflette nella sua struttura di potere: ci sono sei regioni autonome sotto il controllo di differenti gruppi etnici, alcune sottoposte all’influenza di potenze straniere, come il nord in cui si parla principalmente il fārsī e si stipulano accordi economici con l’Iran. Il centro, che dal 2014 è costituito dal governo formato dal presidente Ashraf Ghani, non riesce estendere il suo potere sulle periferie che producono autonomia politica e si radicalizzano, proprio come sta accadendo ora con i Talebani che tengono sotto controllo intere aree di paese.
A febbraio Trump, presidente Usa, ha promosso i primi accordi tra Washington e Talebani, riconosciuti così come soggetto politico che avrebbe partecipato alla formazione del governo afghano. Gli americani devono ritirare, gradualmente, tutte le loro truppe dal paese entro maggio 2021 e i Talebani non sostenere lo Stato Islamico e favorire la stabilità in Afghanistan. Lo storico accordo di febbraio è stato un preludio alle trattative di pace tra i rappresentanti del governo di Kabul e dei Talebani, iniziate a settembre 2020 a Doha, per mettere fine a 19 anni di conflitto. Ma la violenza nel paese non si è fermata, anzi negli ultimi anni e ancora di più negli ultimi mesi, è cresciuta: secondo l’ONU tra gennaio e settembre i morti sono stati 2117, i feriti 3822. Ad aumentare, negli scontri tra le truppe del governo afghano e Talebani, sono le vittime civili.
«È possibile – dice Viviana Mazza – che l’aumento della violenza sia in parte un modo per i Talebani di esercitare pressione sul governo: i loro attacchi continuano nonostante i negoziati e si accompagnano ad un’azione di propaganda contro l’amministrazione Ghani, vista come un burattino nelle mani dell’Occidente, espressione del volere di potenze straniere e non della popolazione. Non sempre i talebani rivendicano gli attentati: quello del 2 novembre, ad esempio, in cui 32 persone sono state uccise all’Università di Kabul è stato rivendicato dallo Stato Islamico ma il governo accusa i Talebani. Inoltre, un rapporto recente sottolinea anche l’aumento dei civili afghani che restano uccisi in attacchi aerei, prima da parte degli Stati Uniti e degli alleati, ora dall’aviazione afghana. Dal mio viaggio nel 2016 la situazione – già gravissima – è peggiorata, molte ONG sono andate via, sono aumentati i crimini e l’insicurezza e anche i morti tra le truppe afghane nel mirino dei combattenti talebani».
Durante le trattative di pace di Doha, almeno fino ad ora, i Talebani non hanno toccato temi che stanno a cuore alla società civile afghana come i diritti delle donne o la promozione della pace tra i gruppi etnici. Più spesso parlano di Sharia, di legge islamica, per questo molti non si fidano. La popolazione è confusa e ambivalente nei confronti della presenza straniera: crede che difficilmente un miglioramento delle condizioni di vita possa dipendere dall’intervento americano visto che questo si è tradotto, spesso, nell’appoggio a figure politiche che non hanno comportamenti migliori rispetto a quelli dei Talebani. Alcune persone, però, sono allo stesso tempo consapevoli che un allontanamento repentino delle forze armate Usa dallo stato, come quello promosso da Trump, potrebbe riportare l’Afghanistan nel caos e vanificare tutti gli sforzi di modernizzazione fatti fino ad ora. Adesso gli occhi sono puntati su Biden, il neo presidente americano e sull’indirizzo che darà alla politica estera. I leader afghani sperano in un ritiro ragionato delle truppe statunitensi. Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha dichiarato che un ritiro troppo veloce rischia di far tornare l’Afghanistan una piattaforma per i terroristi internazionali per pianificare e organizzare attacchi contro l’Occidente. La rinascita di un califfato del terrore, come è successo in Siria e Iraq, è possibile.
«Quello di Stoltenberg è un messaggio chiaro a Washington, un invito a pensare insieme al ritiro. Biden, quando era vice di Obama tendeva a opporsi ad un aumento della presenza Usa in Afghanistan, benché come ha spiegato lui stesso questo facesse parte anche di un gioco delle parti nei colloqui con il Pentagono. Ora vedremo come si comporterà alla guida degli Stati Uniti. Tra le soluzioni ipotizzate c’è quella di mantenere in Afghanistan un piccolo contingente antiterrorismo ma anche questa mossa potrebbe compromettere gli accordi che gli americani hanno preso con i Talebani, che si aspettano un ritiro completo delle truppe, e causare ancora violenza».
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