LA STORIA DI A.
A. è un ragazzo di 28 anni, laureato e con un lavoro. Per circa un anno, tra i 25 e i 26, ha sofferto di depressione. Di seguito è riportata la sua testimonianza attraverso le pagine del diario di quei giorni e le considerazioni del dopo.
Umido. Tutto si liquefà. Scorre pioggia nelle vene, l’acqua invade gli occhi e la vita ristagna. Settimane, mesi, adesso è un anno. La temperatura scende, lenta ma inesorabile. Freddi diventano i pensieri, gelidi i ricordi. Le emozioni si inabissano nelle ore di veglia per poi riemergere di notte, furiose e incontrollate. Apro gli occhi: un altro giorno inizia con un incubo.
Mi guardo intorno: c’è ancora la mia stanza, dove giocavo con gli amici a dodici anni, dove ho fatto l’amore per la prima volta, quando con Lavinia saltammo la scuola e aspettammo che mia madre andasse a lavoro così da avere casa per noi. Sono i dieci metri quadri di spazio dove ho trascorso la mia vita e in cui adesso mi sento ospite, un viaggiatore di passaggio. C’è troppo di mio che non mi appartiene più. Devo chiudere gli occhi per non vedere i fantasmi, e finisce che mi riaddormento e la mattina è andata.
Divoro tutti i pasti. La testa è china sul piatto e gli occhi non si smuovono dal cibo: seguono ossessivi i gesti meccanici del braccio che porta la carne alla bocca e della mandibola che dilania il grasso e la noia. La mente è vuota. Per qualche minuto finalmente vuota.
Percepisco il disagio dei miei genitori, aspetto solo che me lo dicano. Ditemelo che una volta non ero così. Ricordatemi di quando sapevo ridere, di quando scherzavo su tutto; ditelo che rivolete indietro vostro figlio. Ditelo, anzi urlatelo! Urlate e fate squarciare il cielo, perché se pure tutto questo diventa normale allora è veramente la fine.
In solitudine bramo la compagnia ma non esiste compagnia che non mi faccia rimpiangere le ore da solo. Le parole degli amici, le battute, l’informazione martellante, tutta questa gente che ci crede, che si alza all’alba e trova vigore in un’ora d’aria, conforto in una sigaretta, speranza nelle partite della domenica. Anche io ero così, ma adesso cosa sono? La consistenza del reale si fa friabile, si sgretola e mi scivola via dalle dita.
Poi un giorno arriva, naturale e semplice. Gradevole in un certo senso. Il desiderio che non avevi mai concepito d’un tratto appare la sola conclusione logica.
Ci sono fin troppi tabù sui pensieri suicidi. C’è chi giura di non averli mai avuti. Può darsi, ma perché stigmatizzare chi li ha? Sono convinto che molti, anche chi non ha mai sofferto di depressione, abbiano sognato almeno una volta una via di fuga dal dolore. Nel mio caso, non provavo alcuna vergogna. La morte non fa più paura quando a uccidere è la vita.
“Certo sarebbe bello, prova a immaginare: che il nostro tempo sulla Terra fosse come un film. Si vive più forte che si può e quando la storia esaurisce la sua potenza creatrice…titoli di coda. Fine. E ti eviti tutta quella parte che annacqua la vita, quando sai che non hai più niente da dare e niente da dire. Quell’odioso sequel che non ha una ragione perché l’arte non c’è più e tutto quello che ne ricavi sono rimpianti e nostalgia. Quante persone muoiono ben prima di morire. Non trovi A.?”
Un mio amico la vedeva così. Comunque non si è ucciso, e nemmeno io.
Che cosa mi mancasse per varcare il confine? La volontà. Non che nutrissi una segreta fiducia nell’avvenire, ma non volevo abbandonare la mia famiglia alla disperazione, non volevo che anche la loro vita diventasse una condanna. Qualcuno potrebbe dire che allora il problema è tutto qui, nella scelta di una persona. Come si sceglie di non morire, o di lasciarsi andare, allo stesso modo si sceglie di essere depressi e di crogiolarsi nella tristezza.
Mi permetto di dissentire, per me non è stato così. Io non ho scelto di vivere l’Inferno. Mai avrei pensato di poter precipitare, io che nella mia vita mi ero sempre rialzato da ogni caduta. Come tutti, a ogni passo falso incontravo il dolore, ma c’era sempre anche un’imprevedibile energia, una forza di riserva pronta a intervenire quando ogni altra spinta veniva meno. Poi un giorno non l’ho trovata più.
La spiegazione era dentro di me. O meglio, era nel modo in cui vivevo me stesso in relazione col mondo. A mente lucida penso che fosse una terribile resa dei conti, evitabile per qualcuno, ineluttabile per altri. Un processo che avviene quando realizzi tutta la discrepanza che c’è tra la tua vera natura e le esigenze della società; tra il desiderio indotto di assecondarle e il bisogno disperato di essere ciò che si è.
Ma non è facile vivere come si vuole per chi non ha una dose inesauribile di coraggio e gli tocca pure la disgrazia di rendersene conto; di prendere coscienza dei mali della società, del fatto che le persone deliberatamente li assecondino, del fatto che non ci si riesca in nessun modo a liberare del giudizio, verso gli altri e verso sé stessi.
Subire il giudizio e restarne vittime è una causa di depressione. Il giudizio è la morte della comprensione, un’etichetta che si appiccica sul mondo e una mente che si chiude e si predispone a sviluppare un pensiero ossessivo.
Quando giudichiamo, sezioniamo l’essere e separiamo il bene dal male: rispondiamo così a un bisogno innato di certezza, solo che nel farlo contraddiciamo noi stessi e la nostra fede nella complessità del mondo. Ogni desiderio, ogni volontà poggia su una ragione, per quanto remota possa apparirci, e solo il buon senso comune può permettersi di qualificarla in termini positivi o negativi. Ma del buon senso comune possiamo anche fare a meno: ci serve a stabilire delle leggi di convivenza, ma non ci è utile a capire il perché delle cose. E molte persone hanno un bisogno disperato di comprendere le pulsioni che si agitano al loro interno.
Ci sono 300 milioni di persone depresse al mondo e chissà quanti altri soffrono e non hanno una diagnosi a certificare il loro male. Nel nostro piccolo tutti ci sentiamo inadeguati in una miriade di situazioni e tutto vorremmo tranne che essere giudicati. Allora perché giudichiamo?
L’umanità sembra eterna prigioniera di una perversa teoria dei giochi, dove ognuno potrebbe vivere felice e contento e invece si sceglie di infliggersi tutti una giusta dose di veleno.
Di tutto questo prima o poi acquisisci consapevolezza. E in seguito tutto cambia. È un affare a perdere la consapevolezza. Una volta che la ottieni non puoi più tornare indietro. È come se ti crollasse un ponte alle spalle. Tutto ciò che ti resta da fare è proseguire il cammino cercando di non cadere vittima della nostalgia di un tempo innocente. Ma non tutti ce la fanno. C’è chi resta attonito a contemplare le macerie del proprio ponte.
Qualcuno ripete che è una scelta, che in fondo basta farsi forza, imporre a sé stessi una volontà superiore e in essa trovare equilibrio. Ma perché dovremmo tutti esserne in grado? E se qualcuno questa forza non l’avesse? Se avesse un’indole che volge alla malinconia come il giorno volge all’oscurità?
Non dite che la depressione è solo una scelta. Nessuno sceglie di infliggersi l’Inferno.
LA DEPRESSIONE NEL MONDO: ALCUNI DATI
Quante persone nel mondo potrebbero leggere questa storia e rivedere sé stessi? Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono 322 milioni. Una stima che dà alla depressione il triste primato di malattia invalidante più diffusa nel pianeta, anche e soprattutto grazie alla crescita vertiginosa degli ultimi vent’anni che ha visto la sua incidenza aumentare del 20%. 5 persone su 100 in tutto il mondo oggi soffrono di depressione e per alcune di esse l’esperienza sfocia nella tragedia più nera: Secondo l’International Association for Suicide Prevention (IASP), associazione internazionale affiliata all’OMS come organizzazione chiave che si occupa della prevenzione dei suicidi, ogni anno nel mondo il suicidio è tra le prime 20 principali cause di morte per persone di tutte le età e la terza causa di morte tra i ragazzi di 15-19 anni.
L’OMS stima che nel mondo quasi un miliardo di persone convive con un disturbo mentale e che ogni 40 secondi una persona si suicida. E se è vero che la depressione non conosce confini di sesso, età o ceto sociale, alcuni dati ci aiutano a capire quali sono le categorie più a rischio
DONNE E UOMINI
La depressione non è paritaria. Sin dall’adolescenza colpisce molto più le donne degli uomini, sebbene gli effetti sul cervello dei ragazzi e delle ragazze depresse siano differenti. Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Psychiatry, gli uomini soffrono di depressione persistente, mentre le donne tendono a forme episodiche. Le conseguenze sono più drammatiche per il genere maschile, che in misura maggiore sfocia nell’abuso di droghe o nel suicidio (secondo dati ISTAT in Italia i tre quarti dei suicidi riguardano gli uomini). Stando ai numeri, comunque, la depressione colpisce il 5,1% delle donne e il 3,6% degli uomini.
LA SITUAZIONE IN ITALIA
Nel nostro Paese l’ISTAT calcolava oltre 3 milioni di depressi accertati prima dell’avvento del Covid. Di questi 3 milioni, un milione è affetto da depressione maggiore, con sintomi che spaziano dall’apatia all’insonnia, dall’inappetenza a un tremendo senso di colpa e di inadeguatezza, per arrivare fino a pensieri di morte e di suicidio. Anche da noi, come nel mondo, a soffrire di sintomi depressivi sono soprattutto donne con più di 50 anni e con difficoltà economiche. Di queste solo poco più della metà (il 61%) ricorre all’aiuto di qualcuno.
La malattia è più diffusa tra gli adulti e tra gli anziani. In Italia tra i ragazzi di 15-17 anni colpisce sei persone su mille. Tra i giovani adulti di 18-35 anni riguarda una persona su 100, mentre tra gli adulti di 35-64 anni interessa 5 persone su 100. Tra gli anziani di età superiore ai 65 anni, il valore è invece più che doppio: colpisce 12 persone su 100.
Con la pandemia nel nostro Paese i casi di depressione sono quintuplicati e si stima che altri 150.000 casi siano in arrivo. Il Covid-19 e le restrizioni sociali atte a contrastarne la diffusione sono state e continuano a essere causa di un aumento di disturbi mentali di vario genere in tutto il pianeta. Uno studio pubblicato sulla rivista Jama dal Dipartimento di psichiatria della New York University ha riportato i dati di un sondaggio condotto a giugno scorso dai Centers for Disease Control (Cdc) negli Stati Uniti, da cui emerge che il 40,9% degli intervistati ha riferito almeno una condizione di salute mentale, tra cui depressione, ansia, stress post-traumatico e abuso di sostanze, con tassi 3-4 volte superiori a quelli del 2019, mentre il 10,7% ha preso seriamente in considerazione il suicidio negli ultimi mesi.
IL TRATTAMENTO
Secondo l’OMS, nel mondo meno della metà delle persone colpite da depressione riceve un trattamento adeguato. In alcuni Paesi questa percentuale raggiunge il 10%. Come per altre malattie mentali, le difficoltà dipendono dalla mancanza di risorse e di operatori sanitari qualificati, dallo stigma sociale associato a questi disturbi ma anche da errori di valutazione. Persone depresse spesso non vengono diagnosticate correttamente oppure, al contrario, vengono prescritti antidepressivi a pazienti che non hanno il disturbo.
Leggi anche: Coronavirus e depressione, aspettative e realtà tra fase 1 e fase 2