«Le parole sono azioni, non sono mai neutre. Se chiamo un evento fenomeno o emergenza sto raccontando due storie diverse al mio lettore, il convitato di pietra che chi scrive deve sapere di avere sempre di fronte». Con un tono quieto, posato ma deciso Francesca Mannocchi, giornalista, autrice, documentarista, scrittrice freelance inizia il seminario.
«Chiamare un uomo miliziano o terrorista significa dare vita a due narrazioni differenti dei fatti. Il modo in cui raccontiamo determina l’opinione pubblica e questa, a sua volta, l’agire politico. Parlare del fenomeno migratorio che caratterizza l’Italia da anni come di un’emergenza causa risposte dettate da uno stato d’allarme che non aiutano a governare la situazione».
Due ore trascorse come se fossero passati dieci minuti senza nessuna interruzione nel filo della narrazione: la guerra in Nagorno-Karabakh, l’accordo su i migranti Europa-Turchia, i rapporti tra Italia e Libia e i campi di detenzione, la crisi siriana, la situazione drammatica che i rifugiati vivono in Libano dove chi sta nei campi di accoglienza non può più mandare neanche i figli a scuola perché le scuole libanesi non hanno posto e il governo ha fatto chiudere quelle informali organizzate dai siriani.
C’è un link tra gli eventi che all’inizio sembrano scoordinati ma che studio e preparazione prima di andare sul campo portano alla luce.
«Una crisi, una manifestazione, le vetrine rotte dalle bombe carta, il fronte di Tripoli sono momenti facili da raccontare. Difficile è descrivere quello che non succede: quando finisce la guerra, le telecamere si spengono e i reporter tornano a casa. Ma è nel dopo che si determinano gli eventi. È nell’intervallo tra quel momento e l’inizio di un’altra guerra che succedono le cose, perché i fenomeni non nascono dal nulla e noi dobbiamo avere la caparbietà di raccontare i luoghi anche quando sembra che non succeda niente. È nel vuoto tra il 2011 e il 2014, quando le truppe americane se ne vanno dall’Iraq, che al-Qaeda diventa l’ISIS. Ed è adesso che i bambini dell’ISIS, i cuccioli del califfato, sono rimasti da soli nei campi profughi e si sta generando l’humus del prossimo fondamentalismo. Lo sappiamo già perché l’abbiamo già visto» dice Francesca in aula e scrive in Porti ciascuno la sua colpa il lungo reportage pubblicato con Laterza in cui il dopo la guerra, la liberazione dall’ISIS di Mosul in Iraq, diventa un modo per far emergere le tensioni di un paese diviso e per oltrepassare le divisioni nette del mondo come quella tra vittime e carnefici, buoni e cattivi, eroi e colpevoli.
«L’emergenza, l’urlo hanno grammatiche comode ma non è più tempo, non servono». Mostrare la complessità di ogni fenomeno, invitare alla riflessione, è il compito di chi racconta «illuminare il lettore, portarlo in tasca mentre viaggia, accanto alla scrivania mentre scrive. Tutte le volte che ci mettiamo di fronte alla testiera non dobbiamo dare per scontato nulla di ciò che abbiamo visto, annusato, sentito, dubitato».
Per Francesca il giornalista non deve ambire ad essere performativo ma chiaro ed il lettore non deve mai sentirsi un cretino. C’è una sensazione di indistinto che pervade chi ascolta storie lontane, quel muro va abbattuto e cercato l’arpione che unisce una signora di Modena alla donna scappata da Homs in Siria, che ha sentito le bombe vicine esplodere, ha avuto paura, ha vissuto, per proteggersi, nelle fogne della città. Francesca ha trovato quel legame nel «niente» che la donna di Homs risponde a «che cosa hai portato con te quando sei scappata?». Avrebbe detto lo stesso anche la signora di Modena di fronte ad una valigia con dentro soltanto le cose che le sono venute in mente ad un primo pensiero, costretta a fuggire in fretta dalla sua abitazione.
E lo stesso vale per Nour, una ragazza di 16 anni orfana e vedova di due miliziani dello Stato Islamico. «Mentre mi parlava del marito aveva gli occhi innamorati, come tutte le ragazzine di quell’età, come li ho avuti anche io. È lì, nel racconto del suo matrimonio e delle sue abitudini, che ho voluto comprendere le radici del fondamentalismo. Se avessi tolto a Nour la complessità, se l’avessi descritta come una vittima o come una colpevole, non avrei aiutato nessuno. Non lei, non gli altri a capire».
L’intervista è un’alchimia, che a volte si crea ed altre no, ma sta al reporter generarla. È un compito di grande responsabilità e rispetto nei confronti dell’interlocutore. «Non dobbiamo essere bravi a fare le domande, ma nel far venire fuori buone risposte. Un’intervista al panettiere della Magliana pretende la stessa cura di quella al Primo ministro israeliano. Dobbiamo dare gli strumenti alla persona che incontriamo affinché decida di affidarci un pezzo della sua storia, della sua intimità. Strutturare un patto di fiducia che chi scrive deve rispettare tirando fuori le ombre, le contraddizioni». Il giornalista non è un neutro nei confronti delle persone con cui ha a che fare, deve tutelare la vulnerabilità dell’altro «Non possiamo lasciare alle persone che incontriamo il peso di domande o situazioni irrimediabili. Perché noi torniamo a casa, ma loro restano lì».
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