C’è una cosa su cui tutti i veneziani concordano: Piazza San Marco deserta è la cartolina perfetta di un anno di pandemia. Niente li ha sconvolti di più, eppure niente li induce di più all’ottimismo. Perché il Covid ha segnato un cambio di passo, non in tutti i sensi negativo. «Venezia oggi è malinconica. Se c’è una cosa di cui sentiamo la mancanza è il rumore dei bagagli trascinati lungo le calli» dice Attilio, giovane chef tornato in città dopo varie esperienze culinarie d’eccellenza in Scozia, Svizzera e Francia. «Eppure – ci confida sorridendo – forse mai come ora, noi abitanti ce la stiamo godendo. Senza frenesia, senza calche di turisti, torniamo a vivere una città che ha riacquistato il ritmo di un paese».
Attilio, classe 1994, nonostante la giovane età è a capo della brigata del Ristorante Adriatica, fiore all’occhiello dell’hotel Il Palazzo Experimental, lungo le Fondamenta delle Zattere. L’albergo, situato in un palazzo un tempo proprietà di una compagnia di navigazione, ha aperto solo nel 2019, ma si è presto guadagnato un nome e l’attenzione della stampa internazionale per la bellezza dei suoi interni post-moderni disegnati dalla decoratrice francese Dorothée Meilichzon e per l’attenzione ai dettagli e al servizio del cliente. «L’essere il ristorante di un albergo fa piacere perché rimanere aperti sia a pranzo che a cena non è da tutti e ci ha aiutato a sopravvivere» ci racconta Attilio, mentre sfiletta un baccalà per le preparazioni della sera.
Ci sono anche altri giovani come Lisa e Orsetta, che hanno deciso di tornare in città. Il loro negozio di Barberia De le Tole, nel sestiere di Castello, ha un nome evocativo: “Rimani”. Suona come un invito, se si pensa che parliamo di una città nel cui centro storico fino agli anni Sessanta vivevano quasi 200mila persone e che ora ne conta meno di 50mila. La disponibilità di lavoro nell’entroterra, le difficoltà negli spostamenti e nella logistica hanno portato a un graduale spopolamento della città. A questo si è unita una mono-cultura turistica che ha visto negli anni il riempimento di quegli stessi vuoti lasciati dai cittadini con una miriade di strutture ricettive: b&b, alberghi, ostelli, appartamenti.
Fino a prima che la pandemia colpisse la città, «qui esistevano mestieri in altri luoghi impensabili» racconta Massimo, ristoratore del sestiere San Marco «vedevi questi girare per le calli con mazzi di chiavi grandi come palle da baseball, erano i ragazzi dei check-in», giovani il cui lavoro consisteva proprio nel fare le accoglienze per conto terzi, andare sorridendo ad aprire e ad accogliere ospiti in case che nemmeno erano loro. «Anche se i dati ufficiali parlano di 53mila residenti io penso che le cifre siano ancora più drastiche, dato che anche in quella cifra ci sono anche alcune seconde case, contando ciò le residenze vere scenderebbero a 37mila circa.
Per Massimo, lo stop imposto dalla pandemia potrebbe essere l’occasione utile per proporre finalmente dei cambiamenti sostanziali «Venezia è un luogo in cui non si è mai pensato a una mobilità sostenibile, i vaporetti vanno ancora a gasolio, così come tutte le imbarcazioni private a motori, e sono motori che, a differenza di quelli delle macchine, non hanno protocolli severi e neanche il controllo delle emissioni».
Lisa e Orsetta raccontano di aver deciso di aprire per dare un segno, «per mostrare che a Venezia è possibile ed è bello vivere», e che paradossalmente proprio il venir meno del turismo “mordi e fuggi” è stato un elemento determinante di questa scelta in controtendenza. «Aprire una bottega di quartiere significa dare un segno all’interno di una comunità, un segno di presenza e di voglia di esserci». Il loro è un negozio di artigianato locale e al tempo stesso un alimentari di grande qualità, biologico e a chilometro zero, con prodotti che vengono direttamente dalla campagna o dalle isole.
In una Piazzetta San Marco vuota, al tramonto incontriamo Riccardo. Architetto, fotografo e designer, ha alle spalle un’esperienza all’estero d’eccellenza: laureato a pieni voti al Royal College of Art di Londra, non ha saputo resistere al ruggito del leone di San Marco che lo ha richiamato a casa. Veneto originario di Bassano del Grappa, ha deciso di offrire le proprie conoscenze e le proprie capacità alla sua terra d’origine e alla città dei canali: «Ci terrei a sfatare un mito. Non è vero che si può fare bene solo andando fuori. Venezia è ricca di opportunità anche per i giovani, sta a noi coglierle».
«Cosa mi ha spinto a tornare per restare? La pandemia. È stato un momento di riflessione importante. Non potendo viaggiare, gli stimoli si sono concentrati ancora di più su quei territori che sono a un minuto da casa, zone che non consideri attrattive finché non cominci a guardarle con occhi diversi e allora inizi a vedere che ad esempio esiste tutto un tessuto sociale fittissimo fatto di artigiani che hanno così tanto da trasmettere, ma magari non sono più in linea coi tempi. Io cerco di mettere la mia figura professionale e quanto ho imparato durante i miei studi all’estero al servizio di quelle stesse maestranze, aiutandole a svecchiarsi, a far sì che quel sapere non vada perduto, ci lavoro a stretto contatto nei miei progetti, aiutandole a comunicare con il pubblico e a farle conoscere attraverso il mio lavoro».
Sulla scena dei giovani veneziani in cerca di riscatto si propone anche il collettivo “Venezia Morta”, i cui membri amano definirsi i nuovi “futuristi” della città: «anche se non vogliamo asfaltare il Canal Grande» ci rassicura un loro portavoce, riferendosi ironicamente alle intenzioni dell’avanguardia artistica di inizio Novecento. “Venezia Morta” nasce da un manifesto del novembre del 2020 che vuole porsi contro la speculazione del turismo di massa, accusata di aver penalizzato i residenti. «Quei pochi rimasti» commenta amaro il loro portavoce. «Venezia è una gallina dalle uova d’oro e lo sarà anche finita la pandemia. Bisognerebbe sfruttare le sue immense risorse in maniera costruttiva: tutti vogliono Venezia per motivi turistici e speculativi, ma la differenza sta nel creare una comunità o nel distruggerla».
Tra i fattori disgreganti c’è anche la pandemia: «Ha fatto esplodere problemi che già c’erano: i ragazzi che facevano i camerieri o lavoravano nel settore turistico hanno perso il lavoro, e nel momento in cui non si ha più reddito si sgretola la socialità e la comunità. Il nostro progetto non si limita alla semplice apertura di un locale, ma ambisce a ripensare la vita cittadina, intesa non come mera presenza di persone ma come partecipazione attiva dei cittadini, sotto tutti gli aspetti, anche culturali. Certo che finché ti mettono un affitto a 800 euro al mese dicendoti pure che te lo stanno scontando, favorire la ripopolazione giovanile diventa impossibile». Alla domanda se intendono fare di “Venezia Morta” una forza politica la risposta è però perentoria: «Assolutamente no, non abbiamo le competenze necessarie, vogliamo solo svegliare la coscienza delle persone. E poi non credo che i veneziani ci voterebbero visto che siamo in aperta polemica con la loro visione di come Venezia dovrebbe essere».
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