Erdogan, «lo Sradicatore». Erdogan, «il Sultano». Ma anche Erdogan, il più amato. Secondo l’ultima indagine dell’Arab Barometer, la rete di ricerca che rileva gli atteggiamenti nel mondo arabo, il leader turco è il più popolare in Medio Oriente e in Nord Africa. Non in Europa, dove per il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, è Erdogan, «il Dittatore». «Le elezioni continuano a essere libere ma non corrette come prima. C’è un’ombra, ma definirlo così è tecnicamente sbagliato: al massimo, è un autocrate», chiarisce Wolfango Piccoli, esperto di Turchia e direttore della divisione rischio politico della società di consulenza Teneo.
La repressione dei nemici interni, il controllo crescente sull’economia e sul sistema giudiziario, la stretta sulla stampa, l’atteggiamento muscolare in Siria e Libia e il «grande gioco» del gas a largo di Cipro: l’Occidente si indigna, il suo mondo lo acclama. Ed è proprio a quel mondo che bisogna guardare. «Sono anni che Erdogan è il più popolare della regione. Dopo la caduta dei vecchi regimi in Egitto, Tunisia e Libia, non è ancora emersa una figura che nei Paesi arabi abbia lo stesso fascino», spiega Valeria Talbot, condirettrice della divisione Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).
Carisma, ma anche acume politico. Il presidente turco ha saputo sfruttare il soft power, esercitando il potere anche attraverso mezzi non bellici. Per Piccoli, «è stato il sostenitore della riscoperta del lascito ottomano nel Paese, promosso all’estero con attività culturali, come le Musalsalat (soap opera). Pensiamo anche alla recente conversione del Museo di Santa Sofia in una moschea e alla rimozione dei visti, per gli arabi, per visitare la Turchia e incentivarne il turismo».
In un’area dove l’eredità imperiale dell’Islam è andata perduta, Erdogan ha offerto una leadership inedita: «Un politico che parla un linguaggio conservatore-religioso – dice l’esperto – ma che è stato democraticamente eletto, che ha vinto tutte le elezioni dal 2002 in poi e che non esita ad affrontare quelli che per molti arabi sono nemici, Stati Uniti e Israele su tutti».
Quando tra il 2010 e il 2011 le primavere arabe travolsero il Nord Africa, l’Africa Occidentale e il mondo arabo, «il presidente sostenne la rivoluzione nei Paesi in transizione verso regimi democratici – prosegue –. Diversi dissidenti egiziani, siriani, yemeniti hanno trovato asilo politico in Turchia, da dove conducono ancora la loro attività politica». Oggi, però, quella guida vacilla. Negli ultimi anni, Ankara si è ritrovata sempre più isolata a causa soprattutto del suo sostegno al movimento islamico della Fratellanza musulmana.
«Dopo otto anni di interruzione dei rapporti diplomatici, Erdogan sta cercando un riavvicinamento con l’Egitto per poter entrare in quei giochi regionali sullo sfruttamento delle risorse energetiche, da cui al momento è escluso; in gioco, tra i due Paesi, anche la partita dei confini marittimi. Entrambi, poi, hanno interesse alla pacificazione della Libia, ma restano diversi problemi», spiega Talbot. A sud, la situazione non è migliore, con l’instabilità della Siria che da anni spinge al confine migliaia di profughi e che è teatro di scontri con le milizie curde.
Sul fronte interno, la Turchia è un Paese polarizzato. Istanbul e Ankara, nel 2019, sono passate al Partito repubblicano del popolo, la forza d’opposizione. «La perdita della prima, in particolare, è una ferita aperta per il leader turco: è la città più grande, il centro economico-finanziario. Lui stesso, alla vigilia delle elezioni amministrative, aveva detto che chi avesse vinto Istanbul, avrebbe vinto il Paese», commenta la studiosa. Ma lasciandosi alle spalle le metropoli, procedendo più a sud, c’è la regione dell’Anatolia, meno istruita, più conservatrice: la vera Turchia di Erdogan.
«Uno dei suoi punti di forza è stata la capacità di leggere i desideri del cittadino medio, di interagire con i ceti più bassi, di solito ignorati dalla politica», sottolinea Piccoli. Gruppi che rappresentano circa il 50% della popolazione. «Il presidente ha riscoperto i turchi neri, quelli lasciati indietro. Questo si è tradotto nella rinascita di diverse città del centro-sud, trasformate in potenze economiche, come Konya, Kayseri e Gaziantep, al confine con la Siria. Zone che non erano mai apparse nella mappa socio-economica del Paese, diventate capaci di esportare più di un miliardo di dollari l’anno. Tutto questo è successo sotto la sua guida».
Un rapporto, quello tra Erdogan e la Turchia più profonda, che si sta logorando. A pesare, soprattutto la cattiva performance dell’economia. «L’inflazione – continua – è tornata al 16% e colpisce soprattutto i ceti sociali più bassi. È un Paese che deve crescere ogni anno del 7-8% solo per creare i posti di lavoro necessari agli studenti che finiscono le scuole superiori. Tassi di crescita che Ankara non vede da tempo». A minare la popolarità del presidente, anche la gestione della pandemia: giovedì 29 aprile è cominciato il lockdown più duro, che durerà fino al 17 maggio. Una quarantena che i turchi dovranno trascorrere chiusi in casa e senza alcol.