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Esclusiva

Maggio 11 2021.
 
Ultimo aggiornamento: Maggio 1 2022
Sulla rotta dei migranti dimenticati. «A Lipa la situazione è rimasta come prima»

Dalle isole greche fino al confine italiano. Durante il viaggio i migranti della rotta balcanica vengono inghiottiti in un imbuto dal quale è difficile uscire

Per i migranti che partono da est, la strada verso l’Europa comincia dove inizia la terraferma. Una sottile lingua di acqua salata separa la Turchia dalle isole del Mar Egeo: Kos, Lesbo, Samos, Leros, Chios; punti di approdo per i barchini che trasportano i profughi in fuga dal Medio Oriente. Allontanarsi da una crisi per incontrarne un’altra. Perché il destino di chi sbarca sulle coste greche è quello di rimanere per anni chiuso in un limbo fatto di tendopoli, lamiere e miseria.

Pochi metri dividono le baracche dei migranti dalle case vacanza che durante l’estate si popolano di turisti. «Lì tutti possono vedere quello che succede», spiega Andrea Contenta, ex responsabile umanitario per Medici Senza Frontiere in Grecia. Da poco tornato in Italia, racconta il fallimento di un intero sistema d’accoglienza. «L’hotspot dell’isola di Samos era stato pensato per ospitare massimo 648 persone, ma negli anni è arrivato ad accoglierne anche 10 mila». Una situazione di sovraffollamento, quella che da anni vige sull’arcipelago greco, dove i profughi sono costretti a vivere in alloggi di fortuna. Solo un telo adagiato su un bancale in legno consente loro di non dormire con la schiena appoggiata contro il fango.

Con l’arrivo della pandemia le autorità greche hanno deciso di serrare i confini con la Turchia. Se solo nel mese di gennaio 2020 gli arrivi avevano toccato quota 4 mila, ad aprile di quest’anno non sono arrivati neanche a 200. «In questo momento a Samos vivono circa 2 mila persone», spiega Andrea. Un alleggerimento che non è bastato a migliorare le condizioni umanitarie nelle baraccopoli. I migranti continuano a vivere in alloggi di fortuna, senza servizi essenziali, con un’assistenza medica che si limita all’intervento delle Ong e delle organizzazioni internazionali. «In queste isole le persone muoiono», dice Andrea. «Ora stanno costruendo un nuovo campo a 6 chilometri di distanza da quello attuale. Si tenta di nascondere la polvere sotto al tappeto. Con la differenza che qui non parliamo di polvere, ma di esseri umani». I migranti rimangono per anni in attesa di un lasciapassare che permetta loro di raggiungere il continente, di uscire da quel limbo giuridico che li blocca a cavallo tra Europa e Asia. «Da là non si possono muovere, se non seguendo un lungo e complicato iter amministrativo. È così che ognuna delle cinque isole finisce per trasformarsi in un centro di detenzione».

Per chi non viene respinto, per chi riesce a sopravvivere al confinamento, spesso, la Grecia non è altro che una tappa di passaggio. Una volta lasciato il mare alle spalle, sono i sentieri balcanici a segnare la rotta verso l’Europa: Serbia, Montenegro, Croazia, Bosnia-Herzegovina. Una tratta battuta da più di vent’anni, lunga tanto quanto le crisi che hanno messo in ginocchio i Paesi del Medio Oriente. «Parliamo dell’eterno conflitto in Afghanistan, della guerra in Siria, di quella in Iraq». Lo spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà, un’associazione che offre assistenza ai migranti che arrivano nella zona di Trieste e Gorizia. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2020 sono stati oltre 4 mila i migranti che hanno attraversato la frontiera con la Slovenia. Si tratta del 10% del totale degli arrivi in Italia, sui quali si accendono i riflettori solo durante i mesi invernali, quando le temperature scendono e, con loro, la pressione sui confini. Perché in realtà «è durate il periodo estivo che il flusso migratorio aumenta. Come per chi attraversa il Mediterraneo, la stagione fredda svolge un ruolo di deterrente per chi si mette in cammino».

Gianfranco opera nel campo dell’accoglienza dalla metà degli anni Novanta. Conosce bene il sistema che i Paesi balcanici hanno messo in piedi con l’obbiettivo di contenere il flusso proveniente da est. «L’Unione Europea ha costruito una strategia ben precisa per impedire che i migranti valichino il confine». Nel biennio 2019-2020, in Croazia sono state respinte «non meno di 25 mila persone verso la Bosnia». Gianfranco definisce i contorni di un meccanismo brutale, stratificato su due livelli di violenza: una giuridica e l’altra fisica. La prima riguarda i respingimenti alla frontiera praticati dai paesi di transito, il cui unico fine, spesso, è quello di tenere i migranti alla larga dai confini europei. «Una qualsiasi procedura di allontanamento dovrebbe avvenire attraverso un provvedimento scritto, motivato e impugnabile davanti all’autorità giudiziaria con la possibilità di chiedere asilo. Ma questo non avviene». È una prassi fondata sull’illegalità generalizzata, quella descritta da Gianfranco. «Ci siamo disfatti dell’umanità come se fosse un peso morto», ammette con un filo di amarezza. «E’ come se ad un cittadino qualsiasi venisse sequestrata la casa senza motivo. Chiunque lo considererebbe inaccettabile».

Il secondo livello di deterrenza, invece, si fonda sull’uso della forza. Secondo il Danish refugee Council, il 70% dei migranti afferma di aver subito maltrattamenti durante la fase del respingimento. Soprusi che si concentrano al confine bosniaco, dove le autorità croate tentano il tutto e per tutto pur di chiudere le porte dei confini europei. «Qui le persone vengono depredate dei pochi averi che hanno», spiega Gianfranco. «La polizia spoglia i migranti in pieno inverno, distrugge i loro telefoni, li tortura con armi da taglio e corrente elettrica». Quello che potrebbe essere considerato puro sadismo, in realtà non è altro che un metodo di dissuasione. «Il semplice respingimento, per quanto illegale, non risulta sufficientemente efficace. Chi viene riportato al di là del confine, specie se giovane, il giorno dopo è di nuovo lì, pronto a ritentare l’attraversamento». Il confine bosniaco rappresenta l’ultimo miglio prima dell’arrivo in Europa, l’ultimo sforzo prima di raggiungere l’obiettivo. Questo spiega la brutalità della polizia di frontiera, alle prese con un flusso migratorio reduce dell’imbuto che parte dalle isole greche e finisce ai confini europei.

migranti rotta balcanica

Sono 16 mila i migranti arrivati in Bosnia nel 2020. Un numero che si somma a quelli che da anni vivono nelle baraccopoli sparse tra le foreste e gli altipiani, dove durante l’inverno le temperature scendono sotto lo zero. Succede nel campo di Lipa, a venti chilometri a sud di Bihać, al confine che la Croazia. Il 23 dicembre un incendio distrusse gran parte della tendopoli, lasciando senza riparo più di mille persone. Durò giusto qualche giorno la commozione dell’Europa davanti all’ennesimo dramma umanitario della rotta balcanica. «I parlamentari che andarono visitare il campo si ritrovarono davanti anche i migranti respinti dall’Italia», racconta Gianfranco. Perché chi prova ad attraversare il confine, spesso, finisce nella trappola dei respingimenti a catena, che partono dall’Italia e, a ritroso, proseguono in Slovenia, Croazia e, infine, in Bosnia. «E’ come se il confine si dilatasse all’infinito. Non ha importanza quale Paese abbia raggiunto il migrante. Quest’ultimo finisce per ritrovarsi al punto di partenza: fuori dai confini europei»

L’incendio di Lipa arrivò lo stesso giorno in cui l’Organizzazione mondiale per le Migrazioni ne decretò la chiusura. Il campo era ritenuto inadeguato per ospitare delle persone. Ora, a sei mesi di distanza, i riflettori si sono abbassati e nulla è cambiato. «Una volta uscito dall’occhio della cronaca il campo è tornato a sprofondato in quello che è sempre stato», spiega ancora Gianfranco. «Sono state montate delle nuove tende, ma quello di Lipa è un campo tuttora inabitabile. Non ci sono servizi igienici, non c’è riscaldamento. Le persone vivono in una condizione di totale sovraffollamento nonostante il rischio di contagio». Punto e accapo, dunque. La situazione è rimasta la stessa di quando fu decretata la chiusura per inabitabilità. Così i migranti rimangono intrappolati nell’invisibilità, chiusi tra la polizia di frontiera e le catastrofi che si lasciano alle spalle. Un limbo, appunto. Dove è ormai troppo tardi per tornare casa e troppo presto per smettere di cercarne un’altra.